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C’è la carota: gli aiuti più o meno gratuiti economicamente ma con un possibile grave impatto sulle relazioni geopolitiche. E c’è il bastone: la minaccia di ritorsioni economiche. L’obiettivo è lo stesso: mettere al sicuro l’immagine della Cina. Se con l’Italia Pechino ci ha provato a suon di mascherine, con l’Australia è andata diversamente. 

In un’intervista all’Australian Financial Review l’ambasciatore cinese in Australia Cheng Jingye ha consigliato al governo di Canberra di non insistere nelle sue richieste per un’indagine sull’origine del coronavirus. Altrimenti, Pechino potrebbe decidere di boicottare l’Australia: i consumatori cinesi potrebbero smettere di viaggiare e studiare nel Paese o di acquistare i suoi prodotti. Piacere agli Stati Uniti – che con Australia, Regno Unito, Francia e Germania – hanno chiesto chiarezza al governo cinese su quanto accaduto nei laboratori di Wuhan potrebbe essere “pericoloso”, ha avvertito l’ambasciatore.

Il diplomatico ha poi applicato una tattica ormai consueta nella diplomazia cinese sul coronavirus: fare appello all’unità mentre si accusano gli Stati Uniti di creare il caos, il tutto con l’obiettivo di distrarre dalle responsabilità cinesi. “Alcune persone cercano di incolpare la Cina per i loro problemi e distogliere l’attenzione”, ha detto Cheng. E ancora: “È una sorta di compiacimento per le dichiarazioni fatte da alcune forze a Washington”.

Come ha scritto Guido Olimpio sul Corriere della Sera, ci sono tre considerazioni da fare.

1) Gli australiani sono esposti economicamente, un boicottaggio economico può diventare pesante. Esportano vino e carne verso il gigante asiatico.

2) L’Australia è preoccupata per l’espansionismo cinese, è buona alleata degli Usa, ospita un importante radar e centri di intelligence, è attiva con presenza militare al fianco di paesi (Malaysia, Vietnam…) che hanno contese territoriali con Pechino.

3) Essere trasparenti è un dovere, a maggior ragione quando si è davanti ad un’emergenza globale. Invocare chiarezza non è un insulto.

Un punto, quest’ultimo, sottolineato anche da Reinhard Bütikofer, eurodeputato tedesco e portavoce dei Verdi europei per la politica estera, in un’intervista odierna a Formiche.net. Proprio la sua Germania è tra i Paesi nel mirino della Cina: diplomatici cinesi avrebbero infatti chiesto ai funzionari tedeschi di valutare positivamente in pubblico la gestione della pandemia di coronavirus da parte di Pechino, secondo una rivelazione del Welt am Sonntag, che riportato anche la risposta negativa del ministero degli Esteri tedesco.

Qualcosa di simile è accaduto attorno al report europeo sulla disinformazione cinese sul coronavirus: come spiegato da Formiche.net, prima della pubblicazione i diplomatici cinesi hanno fatto pesanti pressioni su quelli europei per evitare la pubblicazione del dossier.

Quello a cui abbiamo assistito tra Cina e Australia, tra Cina e Germania, e ancora tra Cina e Unione europea è l’applicazione della wolf warrior diplomacy, definizione che prende spunto da un film cinese in cui i soldati cinesi uccidono i nemici americani in Africa e in Asia meridionale. “I giorni in cui la Cina può essere sottomessa sono ormai passato”, ha spiegato il Global Times, uno dei megafoni più accesi della propaganda del Partito comunista cinese. “I cinesi non accettano più toni diplomatici mosci”. Quell’editoriale è il bollino, l’autorizzazione del regime all’offensiva dei suoi diplomatici contro chiunque metta in dubbio l’operato di Pechino.

Mentre il Covid-19 esplodeva in Cina, un episodio simile – profetico, potremmo dire – era stato registrato in Svezia, che pochi giorni fa è diventato il primo Paese europeo a chiudere tutti gli Istituti Confucio, centri pagati dal regime cinese per diffondere cultura e non solo. A inizio gennaio, infatti, come raccontato da Formiche.net, Gui Congyou, ambasciatore cinese a Stoccolma, durante un’intervista rilasciata alla SVT, la televisione di Stato svedese, aveva paragonato la Cina a un peso massimo, i media svedesi a un peso piuma: “Il pugile da 86 chilogrammi, con la buona volontà di proteggere il peso piuma, gli consiglia di andarsene e pensare agli affari suoi, ma quest’ultimo non ascolta e addirittura fa irruzione nella casa del pugile peso massimo”, aveva spiegato. “Quale reazione vi aspettate da parte di quest’ultimo?”. Aveva poi definito “i frequenti e viscidi attacchi al Partito comunista cinese e al governo cinese” da parte dei media svedesi “calunnie”. E ancora, aveva dipinto i giornalisti svedesi come Belikov, il sinistro personaggio de L’uomo nell’astuccio di Anton Cechov, seduti alle loro scrivania “cercando di pensare come calunniare la Cina”.

In Italia, dicevamo, la carota sembra vincere sul bastone. Non per tutti, certo: basta guardare l’aggressività sui social con cui viene (mal)trattato chiunque chieda chiarezza a Pechino. Che, lo ripetiamo, non è un crimine né un insulto. Ma dopo le rivelazioni sulle pressioni cinesi sui funzionari tedeschi, Adolfo Urso, senatore di Fratelli d’Italia e vicepresidente del Copasir, ha annunciato che solleciterà il Comitato a convocare il ministro degli Esteri Luigi DiMaio per sapere se qualcosa di simile è accaduto anche in Italia, che (ancora?) non è unita al coro di Paesi occidentali che hanno chiesto verità alla Cina.

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