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Sin dalle rivolte del 2010-2011, il racconto della Tunisia ha viaggiato su due binari paralleli: da una parte l’analisi dei processi politico-istituzionali della transizione, dall’altra la cronaca spaventata delle proteste, del terrorismo, degli sbarchi. Stabilità contro caos, modernità rassicurante contro minacce oscurantiste. 

Il piccolo Paese mediterraneo è di nuovo tornato sotto i riflettori per la questione migratoria, con la visita a Tunisi della ministra dell’Interno Lamorgese alla fine di luglio. Il mese scorso, infatti, ha registrato un significativo aumento degli sbarchi rispetto ai mesi precedenti – anche in rapporto agli anni passati: circa 7.000, secondo i dati del Ministero degli Interni, di cui la maggior parte provenienti dalla Tunisia.

Mentre la tensione monta nell’hotspot di Lampedusa e nella tensostruttura di Porto Empedocle, la grammatica dell’emergenza si impone, esacerbata dalla crisi sanitaria legata alla pandemia di COVID-19. La ministra Lamorgese ha recentemente precisato che per i migranti economici “non c’è alcuna possibilità di regolarizzazione”, mentre il ministro degli Esteri Di Maio ha richiesto la sospensione dell’approvazione di 6,5 milioni di euro di aiuti allo sviluppo destinati alla Tunisia in attesa “di un risvolto nella collaborazione che abbiamo chiesto alle autorità tunisine in materia migratoria”.  

Nel frattempo, la Tunisia di cui solo pochi mesi si plaudeva il processo di costruzione democratica attraversa un’altra crisi di governo, acuendo le sofferenze di un tessuto socio-economico già assai fragile.

Il 15 luglio, dopo nemmeno cinque mesi di mandato, il primo ministro Elyes Fakhfakh ha rassegnato le dimissioni a seguito dell’accusa di corruzione e conflitto d’interesse (avrebbe conservato delle partecipazioni in una società aggiudicataria di un appalto pubblico) e dietro la minaccia di sfiducia da parte del partito musulmano-democratico – come si autodefinisce – Ennahda (52 seggi su 217, con la maggioranza relativa presso il l’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo, il parlamento tunisino), sostenuto da Qalb Tunes (“Il cuore della Tunisia”, 38 seggi), formazione del tycoon Nabil Karoui, “il Berlusconi di Tunisi”, proprietario di Nessma TV, e la coalizione El Karama (“La Dignità”, 21 seggi), legata ai principî dell’Islam politico.

A premere per le dimissioni di Fakhfakh è stato il presidente della Repubblica Kaïs Saïed, il quale – in un braccio di ferro contro Ennahda e ignorando completamente i candidati suggeriti dalle forze politiche durante le consultazioni – ha successivamente affidato l’incarico di formare un nuovo governo a Hichem Mechichi, attuale ministro dell’Interno. Mechichi, carriera da uomo delle istituzioni e molto vicino a Saïed, ha ora il compito di ottenere entro un mese la fiducia parlamentare, per evitare che si vada a nuove elezioni legislative.

La scelta di Saïed è per altro avvenuta, certamente non per caso, in un giorno dal grande contenuto simbolico: il 25 luglio, festa della Repubblica tunisina, oltre che anniversario dell’omicidio del politico Mohammed Brahmi nel 2013 e della morte del presidente della Repubblica Caïd Essebsi nel 2019.

Il 30 luglio, l’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo si è espressa riguardo a una mozione di sfiducia dell’opposizione nei confronti di Rachid Ghannouchi, leader di Ennahda e presidente dell’Assemblea  stessa: con 97 voti a sfavore (ne sarebbero serviti almeno 109) Ghannouchi ha evitato di stretta misura la destituzione, confermando la convinzione di molti che i mesi a venire saranno caratterizzati da un acceso scontro politico non solo con la presidenza Saïed, ma anche all’interno del parlamento. 

Per capire come si sia giunti a questo punto, occorre tuttavia fare alcuni passi indietro e riprendere le fila della storia più recente del Paese. Innanzitutto, è necessario spendere qualche parola per la figura del presidente della Repubblica Kaïs Saïed, eletto al secondo turno il 13 ottobre 2019 con il 72,5% delle preferenze, sbaragliando proprio Nabil Karoui con il favore di un ampio spettro politico, Ennahda inclusa.

Giurista, noto per le sue posizioni integerrime e conservatrici (alcuni osservatori l’hanno grossolanamente e impropriamente etichettato come “salafita”), il suo atteggiamento algido e il suo eloquio estremamente forbito in arabo classico, Saïed si è presentato alle elezioni come indipendente, un “uomo nuovo” rispetto alla pessima reputazione delle istituzioni statuali agli occhi dei tunisini dopo decenni di corruzione e autoritarismo, ma soprattutto un politico sensibile alle istanze di emarginazione delle tante, tantissime periferie che caratterizzano il Paese. 

Appena una settimana prima del trionfo di Saïed, le elezioni legislative del 6 ottobre 2019 avevano invece sancito la maggioranza relativa di Ennahda (19,6%), seguita da Qalb Tunes (14,55%).

Pur conservando un considerevole peso in termini di seggi, è fondamentale notare come per la seconda volta consecutiva Ennahda abbia visto erodersi il suo consenso elettorale, registrando un risultato in discesa rispetto alle elezioni legislative del 2014 (in cui si posizionò secondo con il 27,8% dei voti dietro il partito Nidaa Tunes dello scomparso presidente Caïd Essebsi) e alle elezioni dell’Assemblea Costituente del 2011 (37%), in linea anche con la progressiva riduzione negli anni dell’affluenza alle urne, chiaro segno di un disaffezionamento inesorabile nei confronti della classe politica e della sua capacità di offrire soluzioni all’altezza delle aspettative della cittadinanza. Dalla fine del 2011, infatti, Ennahda è un partito di governo, elemento chiave delle coalizioni che hanno guidato la Tunisia post-Ben Ali. 

Degno di nota è il quinquennio 2014-2019, caratterizzato appunto da una conflittuale coalizione di governo tra Ennahda e Nidaa Tunes, partito fondato nel 2012 proprio in funzione anti-Ennahda.

Questa alleanza, definita dalla politologa Nadia MarzoukiThe rotten compromise”, ha permesso alle élite tunisine tradizionali di navigare nelle turbolente acque della transizione politica, mentre Ennahda ha cercato di rafforzare le proprie posizioni di potere (dopo decenni di repressione sotto Bourguiba e Ben Ali) mantenendo una sorta di “basso profilo” per accreditarsi agli occhi dell’opinione pubblica e internazionale come una forza politica moderna e inserita a pieno titolo nel gioco democratico, questione cruciale soprattutto dopo la violenta deposizione del presidente egiziano Morsi – esponente dei Fratelli Musulmani – nell’estate del 2013.

A titolo di esempio, si menzionano l’annuncio delle separazione tra attività politica e proselitismo religioso (da’wa in arabo) al congresso del 20-22 maggio 2016 e la grande eco che ha avuto l’elezione a sindaca di Tunisi di Souad Abderrahim, scelta apprezzata su questa sponda del Mediterraneo per il fatto che la Abderrahim non fosse velata. Benché l’istituzionalizzazione di Ennahda ne abbia consolidato la posizione nell’agone politico, è riconosciuto come questa strategia abbia segnato un progressivo divorzio con la base e parte del suo elettorato.

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