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In certa misura a prescindere dalla conclusione del negoziato europeo, l’Italia ha comunque di fronte a sé un corridoio stretto nel quale conciliare le esigenze della crescita con quelle della coesione sociale. Vincoli come il divieto dei licenziamenti possono solo generare illusioni ottiche perché dobbiamo consentire alle imprese di conseguire rapidamente obiettivi di efficienza e allo stesso tempo ai disoccupati di beneficiare, altrettanto rapidamente, di efficaci azioni di ricollocamento.

Scontiamo lunghi anni di fallimento delle politiche attive del lavoro di competenza regionale anche se l’unica buona pratica che avevamo, la “dote lavoro” della Lombardia, è da tempo sottoposta a contestazione dell’auditing europeo per ragioni capziose e incomprensibili. Le stesse (generose) politiche passive sono tarate sui soli redditi più bassi o sulla (spesso apparente) inattività. Operai qualificati, impiegati, quadri e lavoratori autonomi, quando disoccupati, non hanno tutele tali da avvicinarsi al loro precedente livello di vita. Si scarica quindi ancora una volta sulla protezione previdenziale la domanda di tutela delle lavoratrici e dei lavoratori più anziani.

La sostenibilità di lungo periodo dei conti previdenziali è sempre stata, e sempre sarà, un profilo fondamentale della più generale stabilità dei conti pubblici. Per questa ragione è incomprensibile come l’Europa non abbia ancora tentato un percorso di convergenza delle regolazioni pensionistiche nazionali anche in funzione della libera circolazione dei cittadini per ragioni di lavoro. L’Italia vive il paradosso della coesistenza (pro rata temporis) delle discipline più favorevoli in Europa del passato e di quelle più sfavorevoli del presente con numerose eccezioni.

Nella trascorsa legislatura sono state assunte decisioni ben più generose e inique di “quota 100” che hanno comportato impegni di spesa per circa venti miliardi. Esodati di lungo corso, precoci, “stressati” ed altri segmenti del mercato del lavoro hanno trovato la protezione che altri non hanno avuto. Per queste ragioni l’Italia dovrà in ogni caso individuare una sua strada, aperta a tutti, di flessibilità in uscita dal mercato del lavoro osservando gli altri Paesi ed utilizzando, quando possibile, i fondi bilaterali sussidiari. Ma, soprattutto, dovrà incoraggiare il lavoro riducendone gli oneri indiretti in termini strutturali e lasciando spazio alla regolazione aziendale e territoriale.

Quanto alle politiche attive, nulla risulta più utile dell’assegno di ricollocamento che incoraggia il lavoratore ad agire e a scegliere liberamente il soggetto, pubblico o privato, che più lo può aiutare remunerandolo poi, proprio con quella dote, in base al risultato.

Possiamo insomma uscire dalla trappola in cui siamo entrati con un disegno complessivo nel quale la crescita delle imprese e del lavoro rimangano un obiettivo primario, quanto deve esserlo una coesione sociale pragmaticamente perseguita e pazientemente negoziata.

Non c’è crescita senza coesione sociale. E viceversa. Parola di Sacconi

In certa misura a prescindere dalla conclusione del negoziato europeo, l’Italia ha comunque di fronte a sé un corridoio stretto nel quale conciliare le esigenze della crescita con quelle della coesione sociale. Vincoli come il divieto dei licenziamenti possono solo generare illusioni ottiche perché dobbiamo consentire alle imprese di conseguire rapidamente obiettivi di efficienza e allo stesso tempo ai disoccupati…

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