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New York – I riflettori del palcoscenico politico-giudiziario americano sono sempre più puntati su Michael Flynn. Il generale, ex capo della Dia (Defense Intelligence Agency) e fedelissimo della prima ora di Donald Trump, è stato il fiore all’occhiello della sua squadra durante la campagna elettorale del 2016 (celebre il suo confronto con il guru delle campagne di Barack Obama, David Plouffe, nel dietro le quinte di un dibattito tra il tycoon e Hillary Clinton). Una stella che però si è rivelata cadente subito dopo l’insediamento nel gabinetto di Trump, dove è stato nominato consigliere per la sicurezza nazionale: carica che ha mantenuto soltanto un mese, costretto alle dimissioni per aver nascosto i contatti con l’ex ambasciatore russo a Washington Sergey Kislyak. Da quel momento il suo nome è stato legato a doppio filo al Russiagate, l’indagine del procuratore Robert Muller sulle presunte interferenze di Mosca nelle elezioni vinte dal tycoon. Di quell’inchiesta ne è diventato un po’ icona e un po’ pioniere, tra i primissimi fedelissimi trumpiani a finire sotto accusa e quindi incriminato per attività di lobbying non autorizzate con governi stranieri.

La sentenza a suo carico era solo una questione di tempo, ma a sorpresa il dipartimento di Giustizia Usa ha deciso di far cadere tutte le accuse. Vicenda archiviata? Per nulla. Il giudice federale Emmer Sullivan ha sospeso la decisione del dicastero di William Barr, spiegando di attendersi che molti gruppi indipendenti ed esperti legali si facciano avanti contro il tentativo di scagionare il generale. E dopo aver bloccato le richieste del ministero, Sullivan ha nominato un ex collega per costruire un nuovo impianto e rispondere all’istanza per valutare se Flynn debba essere incriminato di spergiuro per aver dichiarato ad una corte di essere colpevole e ad un’altra che non ha mai mentito. Dopo essersi dimesso da consigliere per la sicurezza nazionale, infatti, ammise all’Fbi di aver mentito al vice presidente Mike Pence sui suoi rapporti con l’ambasciatore russo a Washington, una dichiarazione di colpevolezza che poi ha ritrattato.

E ora, un nuovo colpo di scena. Tre senatori repubblicani hanno diffuso un elenco, declassificato recentemente, di una trentina di funzionari dell’amministrazione Obama, incluso l’ex vice presidente Joe Biden, che tra novembre 2016 e gennaio 2017 (ossia tra l’elezione e l’insediamento di Trump alla Casa Bianca) chiesero alla National Security Agency (Nsa) di identificare un soggetto tenuto sotto controllo nel Russiagate e rivelatosi essere poi il generale Flynn. Assieme a Biden, nella lista figurano anche i nomi dell’ex capo dell’Fbi James Comey, della Cia John Brennan, della National Intelligence James Clapper e dell’ambasciatrice Usa all’Onu Samantha Power. Le procedure di “unmasking” sono progettate in base alla legge che regola la sorveglianza segreta degli stranieri, per consentire ai funzionari di comprendere meglio i rapporti di intelligence classificati in cui i nomi dei cittadini americani sono generalmente secretati per proteggere la loro identità.

Alcune richieste, come quella di Biden, arrivarono dopo la telefonata di fine 2016 tra il generale e Kislyak. Per i repubblicani quindi potrebbe essere un indizio che l’amministrazione Obama stava cercando di incastrare Flynn, in linea con la loro teoria che il Russiagate fu un complotto per fermare Trump. Mentre la campagna di The Donald ha accusato Biden di aver utilizzato impropriamente il processo di smascheramento per colpire Flynn. “Gli americani – ha spiegato Brad Parscale, direttore della campagna elettorale del tycoon – hanno il diritto di conoscere la profondità del coinvolgimento dell’ex vice presidente nella trappola al generale per favorire la bufala della collusione con la Russia”.

Il boomerang del Russiagate. Così Trump vuole smascherare chi accusava lui (e Flynn)

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