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C’è in giro una certa pigrizia intellettuale (soprattutto, ma non solo, nel mondo dell’informazione) che nasconde le domande necessarie e si accontenta delle risposte ordinarie. Prendiamo il caso Luigi Di Maio e le sue “dimissioni da capo del partito”. È diventato il caso politico dell’ultima settimana, insieme all’(ansiosa) attesa dell’Armageddon elettorale dell’Emilia-Romagna.

C’è chi teneva già pronto un instant book sulle meteore politiche per spiegare il fenomeno delle precipitevoli cadute dei nuovi leader e l’ha calzato, in attesa di nuovi interpreti, sul giovane ministro. Come se la carriera veloce ed effimera fosse la scoperta del secolo e non il portato di una lunga stagione che registra, da 26 anni a questa parte, un turn over parlamentare medio che supera di parecchio il 50%, avvicinandosi più volentieri al 70. Dunque Di Maio.

Diciamo subito che le analisi circolanti enfatizzano la circostanza delle “dimissioni preventive”, rese prima del voto di domenica nelle due regioni che vanno a rinnovo. Ma, a parte che lo stesso Di Maio da qualche tempo aveva seminato indizi sul suo intento, e dunque non si capiscono le faccine sorprese come emoticon per twittatori compulsivi che si sono aperte di qua e di là, l’errore di fondo che si commette è di non capire che il giovane ministro degli Esteri non è Aldo Moro e il M5S non è la Dc.

Anzi: non è neppure un partito. Cos’è, infatti, un partito? Non un’emozione, non un prodotto di marketing, non un comitato che poggia su una sola issue, non una proprietà privata. Il partito è una comunità di passioni e di idealità- se non volete chiamarle ideologie- che poggia su una base sociale attivamente partecipante; il partito è organizzazione politica, è popolo, è congresso, è leadership contendibile, è continuità, è strumento per fini generali e non particolari, che consente al militante di “ concorrere, con metodo democratico, alla determinazione delle politiche nazionali”. In esso non ci può essere niente di effimero, di “padronale”, di verticistico.

Il Movimento Cinque Stelle non è un partito – e forse oggi non sono più partiti neppure quelli che vogliono chiamarsi così – per sua stessa scelta. Il suo vertice è cooptato e non selezionato dal basso, non si fanno congressi, non c’è militanza ma si sperimenta l’agorà digitale seguendo le linee guida futuriste dell’ideologo dell’algoritmo Gianroberto Casaleggio, scomparso quattro anni fa.

Il consenso che si è addensato sulle sue liste è stato un flusso intercettato non dai candidati proposti ma dal congegno in sè, una nebulosa che respira col ritmo capriccioso del movimento e che non ha la forza del radicamento coltivata dalla forma-partito. Di Maio non fu, dunque, l’artefice della vittoria dei 5S alle politiche del 2018, così come non è stato il responsabile della sconfitta alle europee del 2019 e non sarà colui il quale metterà la firma alla (probabile) sconfitta del Movimento in Emilia-Romagna e in Calabria.

Perché ciò che gonfia il consenso delle sigle politiche in questa stagione non è il nutrimento del partito ( organizzazione, idealità, contendibilita’ delle cariche, continuità), ma l’effimero incendio del movimento. Necessariamente circoscritto nel tempo. Se il ragionamento ha un senso, allora ci ritroveremo a sorridere delle analisi che si stanno sprecando sull’uscita di scena di Di Maio, e sull’interpretazione in chiave, per così dire, “correntizia” del M5S, quasi che sia possibile distinguere fazioni interne caratterizzate da personalità come Di Battista, Appendino, Ruocco ecc. Chi volesse fare qualche raffronto storico pertinente vada a cercare le carte di un certo Guglielmo Giannini, l’inventore dell’Uomo Qualunque, movimento proto-populista che raccolse attorno all’omonimo giornale- il web degli anni ‘40- il consenso degli italiani anti-casta politica, anti-tasse, anti- un bel po’ di roba. Ebbe successo, elesse una bella rappresentanza alla Costituente, scomparve veloce. Il suo leader calcava anche lui, come Grillo, le scene teatrali. Portava un elegante monocolo e scriveva commedie. Dopo la prima legislatura si persero le sue tracce. P.S. Ciò che è detto per il M5S vale anche per tutti le altre liste politiche. Soprattutto quelle che ingrassano velocemente come i batraci di Fedro.

Phisikk du role - Di Maio, i partiti e i batraci di Fedro

C’è in giro una certa pigrizia intellettuale (soprattutto, ma non solo, nel mondo dell’informazione) che nasconde le domande necessarie e si accontenta delle risposte ordinarie. Prendiamo il caso Luigi Di Maio e le sue “dimissioni da capo del partito”. È diventato il caso politico dell’ultima settimana, insieme all’(ansiosa) attesa dell’Armageddon elettorale dell’Emilia-Romagna. C’è chi teneva già pronto un instant book…

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