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[Aggiornamento del 08/06/2020]. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il suo omologo americano Donald Trump hanno concordato di “continuare una stretta collaborazione” in Libia in una conversazione telefonica lunedì, ha annunciato Ankara.

“I due leader hanno concordato di continuare la loro stretta collaborazione per promuovere la pace e la stabilità in Libia, il vicino marittimo della Turchia”, ha affermato la presidenza. Durante la conversazione, i due capi di stato “hanno raggiunto accordi”, ha detto Erdogan alla televisione pubblica TRT: il turco ha accennato a una “possibile iniziativa” che i due paesi potrebbero prendere insieme, ma non ha fornito dettagli. Dopo la conversazione telefonica, “potrebbe esserci un nuovo capitolo tra gli Stati Uniti e la Turchia sul processo di pace” in Libia, ha detto Erdogan — che al colloquio ha dato molta più enfasi di Trump.

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Intervenendo in un panel organizzato dall’Atlantic Council, il vicepresidente turco, Fuat Otkay, ha detto che Stati Uniti e Turchia hanno “opportunità creative” per “capirsi meglio l’un l’altro” in mezzo alla crisi prodotta dal coronavirus che ha accelerato il confronto globale tra Washington e la Cina.

Quello che dice il secondo di Erdogan è molto importante per le questioni affrontate direttamente, ma soprattutto per quel che queste possono significare nel quadro dei rapporti turco-americani nel sistema di proiezioni regionali che riguarda sia il Mediterraneo e il Nordafrica, sia il Medio Oriente — quadranti complicato, dove la (in)stabilità si dipana attorno a (dis)equilibri che vedono anche gli stessi alleati americani in posizioni complesse, spesso competitive.

“L’economia globale pre-pandemica è stata costruita su un’unica catena di approvvigionamento, con la Cina al centro”, ha detto Otkay: “Per Paesi come la Turchia, con il nostro solido settore manifatturiero e la nostra popolazione giovane, questa sarà un’opportunità economica”, ha spiegato.

E ancora: “La pandemia ha sballato alcuni miti […] Tutti i Paesi che guidano la globalizzazione sono diventati improvvisamente uno stato-nazione”. Poi ha spiegato che “solo gli stati-nazione sono stati in grado di fornire determinati servizi” e che “è disperatamente necessaria una nuova definizione di potere nazionale”. Per il vicepresidente turco il processo “lento e doloroso” di “decoupling” dalla Cina creerebbe aree di interesse comune con gli Stati Uniti.

Ossia, Otkay ha fornito una spiegazione perfetta sull’impegno turco in determinati dossier — per esempio quello libico e mediterraneo — e sul ruolo che Washington gli vede affidato. Una contropartita, l’avallo di quegli impegni, all’interno del grande tema, il contrasto alla Cina, che per gli Stati Uniti è l’argomento fondamentale.

Per un’amministrazione come quella di Trump che ha fatto della reciprocità l’elemento necessario nelle relazioni, le parole di Otkay sono perfette. Testimonianza che Ankara ha imbeccato una linea giusta dopo anni difficili per le relazioni con gli Usa, spinta molto dalla grande occasione che l’epidemia ha offerto nel mondo degli affari internazionali. I turchi hanno svolto un ruolo nell’emergenza, hanno inviato materiale sanitario in dozzine di Paesi (e i cargo hanno viaggiato sotto insegne Nato), hanno investito risorse diplomatiche in riavvicinamenti pragmatici (come quello con Israele, facilitato dagli Usa, e nella riapertura di un backchannel con gli egiziani), hanno spinto il coinvolgimento militare in Libia ottenendo una vittoria strategica.

Hanno ottenuto la riconquista della Tripolitania da parte delle forze del Gna — governo promosso dall’Onu, internazionalmente riconosciuto, ma che nessuno se non la Turchia (da inizio 2020) ha sostenuto militarmente nei 14 mesi di aggressione sanguinosa subita per le ambizioni da rais del signore della guerra dell’Est, Khalifa Haftar. Ora che Haftar ha perso, ed è stato bloccato sulla ritirata dai suoi sponsor principali (Russia, Egitto ed Emirati Arabi), la Turchia ottiene dalla Libia prestigio e rispetto internazionale (testimonianza di quanto ancora le capacità militari dimostrate sul campo riescano a farsi vettore della politica estera), e interessi diretti (la ricostruzione libica, e magari le possibilità di sfruttamento dell’off shore energetico in futuro), nonché strategici.

La presenza turca nell’ovest del Paese non potrà in futuro che consolidarsi perché diventa una necessità anche per gli americani, che cercano un bilanciamento al ruolo fisico che i russi hanno preso nel contesto orientale della Cirenaica — aerei ad al Jufra, politici e diplomatici che vanno e vengono sulla rotta Mosca-Tobruk. Per la Turchia la possibilità di usare la grande base di al Watiya — recentemente liberata dall’occupazione haftariana dai guerriglieri sponsorizzati del Gna — è molto concreta e questo sottintenderebbe anche un collegamento con gli Usa. Al Watiya è geograficamente una forza, posta prossima al confine tra Libia e Tunisia, se si considera che il Pentagono — sempre in ottica di bilanciamento con i russi verso l’Egitto — pianifica un dispiegamento militare sulla suolo tunisino.

L’ambasciatore americano in Libia, Richard Norland (che lavora da Tunisi), due giorni fa è stato chiaro: l’intervento turco in Libia è arrivato in risposta al posizionamento alle spalle di Haftar del Wagner Group, una società privata militare i cui contractor operano spesso per conto del Cremlinoin aree di crisi (Siria, Ucraina, Sudan, Repubblica Centraficana per dirne alcune).

Da una parte certe sfere di intervento che piacciono (e semplificano la vita) agli americani, dall’altra creare un’alternativa economica industriale che possa competere con la Cina. La traiettoria turca è recepita anche a Washington.

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