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I can’t breathe” è l’ultima frase di George Floyd, l’afroamericano assassinato da un agente di polizia di Minneapolis che lo schiacciava a terra (con ginocchio sul collo e mani in tasca) dopo averlo arrestato. Floyd era inerme e non opponeva resistenza. Floyd piangeva, chiamava la madre, non respirava: è rimasto per sette minuti sotto al ginocchio di quel poliziotto (sette minuti di cui quattro privo di conoscenza). Dettagli che sappiamo perché un passante ha filmato la scena e l’ha condivisa sui social network innescando il caso globale.

I can’t breathe” torna come uno schiaffo in faccia all’America attuale, in crisi per il coronavirus, per l’economia, per il pensiero politico e per la dimensione socio-culturale. Il 17 luglio del 2014, un uomo nero disarmato di nome Eric Garner è morto a Staten Island, New York, dopo che gli agenti di polizia lo hanno gettato a terra e lo hanno messo col volto in una presa d’aria. Le ultime parole di Garner, registrate in un video sul cellulare, furono: “Non riesco a respirare”.

Gli agenti di Minneapolis – quattro in totale – sono stati subito sospesi e poi licenziati, ma la polizia ha per ora classificato la morte di Floyd come “malore”. Ma il dipartimento di Giustizia con l’Fbi indagano, perché si tratta di un omicidio più che presunto. E la Casa Bianca ha percepito che si tratta di un allarme elettorale, anche per questo il presidente ha chiesto giustizia. In un Paese in cui il quarterback dei San Francisco 49ers, Colin Kaepernick, iniziava le partite inginocchiato chiedendo rispetto per gli afroamericani, l’immagine del poliziotto di Minneapolis – già responsabile di altri episodi razzisti in carriera – che schiaccia fino alla morte il collo di Floyd col suo ginocchio ha una potenza rivoluzionaria. Non a caso, Kaepernick s’è mosso per primo per chiedere di fermare le proteste.

Da giorni la situazione è dilagata: da Los Angeles, a New York, fino a Louisville, in Kentucky – dove i manifestanti chiedono giustizia per un’infermiera afroamericana, Breonna Taylor, uccisa dalla polizia mentre era in casa perché gli agenti avevano fatto irruzione sbagliando indirizzo. Ormai non si esagera a parlare di rivolte. Una troupe della Cnn che copriva le proteste è stata arresta in diretta televisiva a Minneapolis.

La rabbia è esplosa, portando in piazza un sentimento collettivo che vede schierata l’altra America, il polo opposto ai manifestanti che un mese fa si sono piazzati, armati da combattimento col volto coperto dai balaclava, davanti all’ufficio della governatrice democratica del Michigan per chiedere la fine dei lockdown. E chissà se il blocco e l’epidemia non abbiano influito nello sfogo di questi giorni come in quello precedente.

Il 4 maggio, a Los Angeles, un gruppo di anarchici ha incendiato un van di Amazon perché la società fornisce il software alla Ice, l’agenzia che controlla l’immigrazione: non staremo fermi davanti al diffondersi dell’epidemia nei centri di smistamento dei migranti, dicevano nel messaggio di rivendicazione.

Maggio è il mese del mental health, e quest’anno come non mai ha un suo significato speciale: la salute mentale è una forza delle comunità, tanto quanto quella fisica. La pandemia ha dimostrato come una crisi sanitaria prodotta da un virus possa scombussolare equilibri generali: allo stesso modo risentimento, disturbi depressivi, manie e psicosi individuali possono rapidamente trasformarsi in problematiche di carattere sociale e tenuta dell’ordine pubblico. Temi politici e sociali che si sommano alle questioni mentali personali e trovano sfoghi violenti.

L’America del 2020 — un Paese che fa i conti con l’uso degli anti-dolorifici e anti-depressivi oppiacei che hanno generato una dipendenza endemica devastante — è tecnicamente pronto a certe dinamiche. Per esempio, secondo un sondaggio condotto da Yahoo News e YouGov, circa il 44 per cento degli elettori repubblicani crede che Bill Gates abbia deciso di sponsorizzare il vaccino contro SarsCov2 con l’intento di impiantare un micro-chip sotto la pelle delle persone. Il complottismo diffuso crea fenomeni collettivi di instabilità, anche psicologica: le disparità, le faglie socio-culturali ed economiche intra-americane, producono l’espirazione mentale negli individui.

Le immagini di Minneapolis — dove nella notte appena trascorsa i manifestanti hanno occupato e incendiato un commissariato di polizia — riportano la mente al 1992, quando a Los Angeles Rodney King fu protagonista di una vicenda simile a quella di Floyd. Ma non è un remake: più che qualcosa di vecchio che torna a galla, sembra qualcosa di nuovo all’orizzonte – che viene costantemente filmato. È l’età del suprematismo bianco contro la rabbia nera, ma anche dell’idrossiclorochina contro la scienza, delle diffidenza isolazionista, e via dicendo.

È l’epoca in cui il presidente degli Stati Uniti evoca in un tweet possibili brogli elettorali legati al voto via posta e Twitter decide di mettere un disclaimer per chi vuole “fatti” — ossia, non opinioni devianti — sul tema. Lo stesso Twitter oggi ha bollato come “incitamento all’odio” un altro messaggio in cui il presidente attaccava il sindaco di Minneapolis, Jacob Frey — additandolo di essere “di estrema sinistra” e di non essere stato in grado di controllare e le proteste, e che “quando iniziano i saccheggi, si inizia anche a sparare”.

“Questo tweet ha violato le regole di Twitter sulla esaltazione della violenza. Tuttavia, Twitter ha stabilito che potrebbe essere di interesse pubblico che il tweet rimanga accessibile”, dice l’avviso sul social network.

È importante notare che Twitter non ha cancellato, ergo censurato, il tweet. Lo ha oscurato perché ritiene che violi le regole sull’esaltazione della violenza. Chiunque può vedere il tweet, basta superare il disclaimer indicato e visualizzare — ma non è possibile interagire con esso. A differenza di un altro utente, il presidente americano e gli altri leader governativi hanno valida per loro l’eccezione dell’interesse pubblico, perché è un capo di Stato. Ora una constatazione: tenere il tweet attivo dietro quel disclaimer serve anche a dimostrare, diciamo così, ‘di che pasta è fatto’ Trump? Ossia, inviare un messaggio agli elettori e al mondo contro il presidente? È possibile, il livello dello scontro si sta alzando, sebbene Twitter abbia seguito le proprie norme, per altro ben chiare sull’argomento.

Certamente la vicenda non è immune dallo scontro tra Jack Dorsey e la Casa Bianca, che ha firmato recentemente un ordine esecutivo per facilitare le vie giudiziarie contro i social quando assumano il ruolo di moderatori di fake news.

Questa è l’epoca in cui una donna bianca di New York ha chiamato la polizia mentre portava a spasso il suo cane in un’area interdetta ai cani di Central Park denunciando che “un afroamericano minaccia di farmi del male”. Si trattava di un newyorkese di colore che le aveva chiesto di spostarsi da quella zona, perché era una parte del parco adibita alla riproduzione degli uccelli e i cani non potevamo starci. Lui ha ripreso tutto e l’ha postato sui social network: tra quelli che hanno riconosciuto la donna c’era anche il suo datore di lavoro, che l’ha licenziato.

Frey ha chiesto a Jesse Jackson di aiutarlo, con una visita in città, a mettere pace: il vecchio leader, compagno di Martin Luther King, sembra però parte di un’altra stagione. In piazza non ci sono solo i neri: alle proteste — infiammate da coloro che ne hanno approfittato per saccheggi e violenze — partecipano molti bianchi. E anche in questo sembra qualcosa di nuovo rispetto al vecchio schema.

(Foto: Wikipedia)

Minneapolis, il rischio tenuta sociale e le crepe intra-americane

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