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Coerenti con l’impostazione di tornare su un argomento a “bocce ferme” per fare una riflessione meno esposta all’emozione politica del momento, il momento è buono per parlare del Russiagate da una prospettiva russa (si badi, non necessariamente filo-russa).

L’occasione è data dalla letterale scomparsa del tema dalla scena politica americana e a cascata nel resto del mondo a totale vantaggio di due spin off, ovvero un prequel (Obamagate) ed un sequel (Ukrainegate) che, come accade per alcune fortunate serie televisive, stanno facendo dimenticare l’originale. Con il risultato però in questo caso di aumentare la confusione su tutta la vicenda.

Sembra passata un’eternità da quando l’anno scorso a Mosca, a una riunione ristretta del top-group sul futuro delle relazioni Russia-Usa, la delegazione americana aveva sorpreso alzando la mano compatta alla domanda ironica e provocatoria di Fyodor Lukyanov su chi dei presenti credesse veramente al Russiagate.

In quell’occasione – forse perché ero l’unico non russo e non americano imboscato all’incontro – cercai di mediare tra le due posizioni e avanzai una chiave di lettura che vorrei riproporre oggi, rincuorato dalla piega che hanno preso gli avvenimenti.

Dissi che i russi si erano occupati di elezioni americane con una serie di strumenti diplomatici e di intelligence (la linea divisoria  tra i due, soprattutto a Mosca, è molto sottile) ma che l’obiettivo non era tanto di fare vincere Trump (twist centrale della trama del Russiagate) quanto di indebolire il più possibile Hillary Clinton in vista di una sua vittoria, data oramai per scontata.

Alla base della analisi vi erano tre considerazioni sulla Russia: una sulla sua tradizione diplomatica, una sui suoi rapporti con la Clinton, e una sulle sue scelte in politica estera.

La prima ci riporta ancora una volta al ruolo centrale che hanno i diplomatici nell’azione di governo russa, aumentato a dismisura da quando Mosca ha deciso di tornare protagonista sulla scena internazionale a tal punto da andare a ricoprire posizioni nevralgiche della funzione pubblica anche al di fuori del già potente ministero degli Affari Esteri.

Si tratta di una vera e propria élite formata in larga parte all’Università Mgimo, una sorta di Grand Ecole russa fucina di una classe dirigente di tecnocrati cui viene riconosciuta una notevole preparazione tecnico-diplomatica.

Anche quando – come è normale nella vita – questi tecnocrati si scontrano a vicenda in fazioni opposte (ad esempio Sergei Karaganov e Alexander Dynkin), restano tuttavia legati ai precetti di una diplomazia che si ispira al realismo politico del suo fondatore spirituale: quell’Yevgeny Primakov che è stato il vero Metternich della recente politica estera russa.

Uscito indenne dal periodo sovietico a quello putiniano, passando per la turbolente era yeltsiniana, egli professava una politica estera di mediazione ma distaccata dalla emotività che scelga il percorso migliore per lo Stato, lasciando poco spazio a deviazioni ed improvvisazioni.

Uno dei precetti alla base di questo credo diplomatico è che è sempre meglio continuare a lavorare con chi già si conosce, rispetto alla novità di un salto nel buio per un cambio di interlocutore sconosciuto, anche se ritenuto “migliore” sulla carta. Solo nell’ultimo decennio, la Russia ha dimostrato in decine di occasioni di attenersi strettamente a questo precetto, sia con i Paesi che le sono alleati o amici, sia con quelli con cui è in competizione.

Qui scatta l’incrocio con la seconda considerazione che riguarda Hillary Clinton, uno dei politici più noti alla Russia e ai suoi diplomatici.

A differenza di Trump, senza una vera storia politica alle spalle, la Clinton per la Russia ha sempre rappresentato una delle figure meglio note e studiate del panorama di Washington.

Questo interesse nei suoi confronti è nato da molto prima delle famigerate presidenziali perse, da quando era first lady alla Casa Bianca e poi durante il suo mandato di senatrice di New York, trampolino di lancio per una candidatura annunciata alla Casa Bianca, sfumata all’ultimo solo per via dell’incidente di percorso Obama.

Fu proprio da quella prima sconfitta alle primarie democratiche che la Clinton assurse al ruolo di capo della diplomazia Usa e quindi – come è normale che sia – di target di default dell’azione di intelligence e di analisi russa.

Il Ministero degli Affari esteri e i principali istituti di ricerca iniziarono a investire per creare un expertise di esperti ed analisti sui Clinton, la cui dynasty politica prometteva di ricalcare potenzialmente quella dei Kennedy.

Da molto prima delle elezioni dei 2016 è probabile che Mosca – che dai tempi sovietici ha notoriamente una sviluppatissima rete di intelligence estera (la famosa Svr) negli Usa, superiore a quella di Washington in Russia – abbia accumulato un dossier corposo su Hillary, sul suo passato personale, professionale e politico. In altre parole, informazioni che vanno dallo scandalo Lewinsky alle primarie della contesa con Bernie Sanders, passando per l’attacco di Bengazi e l’omicidio dell’ambasciatore Christopher Stevens.

Senza dimenticare il profiling caratteriale della Clinton maturato grazie a innumerevoli contatti ed incontri, istituzionali e non, accumulatisi in più di due decenni. Basti ricordare che a capo della diplomazia di Mosca vi è quel Sergei Lavrov che prima di diventare ministro è stato per ben dieci anni ininterrotti ambasciatore russo all’Onu vivendo a New York e parlando un inglese come un madrelingua.

La terza ed ultima considerazione è la sintesi logica delle due precedenti nella definizione della politica estera di Mosca dopo il 2016 in Ucraina ed in Siria. Dovendo prendere la decisione più razionale e prevedendo la vittoria della Clinton (data per scontata anche da pezzi dello stesso fronte trumpiano come scrive Michael Wolff nel suo “Fire and Fury”) è probabile che Mosca si sia preparata come suo solito al meglio a questo scenario.

Se vi è stata regia “istituzionale” russa dietro il rilascio di informazioni compromettenti americane della Clinton (forse non a caso Wikileaks in gran parte ha pubblicato documenti diplomatici dello State Department) questo è stato comunque limitato e a rilascio progressivo con l’obiettivo di screditare quanto basta la Clinton per delegittimarla e creare il mito di una vittoria-mutilata.

Per farne una lame duck, un’anatra zoppa indebolita nel suo mandato presidenziale, prevedibile quando, grazie al dossier di cui sopra, addirittura non condizionabile nelle sue scelte di politica estera sugli scenari che stanno a cuore a Mosca.

Ovviamente il tutto dietro le quinte, sfruttando i molteplici canali di comunicazione in corso con la Clinton, salvando le apparenze del tradizionale scontro Usa-Russia, utile in fin dei conti al mainstream di entrambi i contendenti per compattare le proprie opinioni pubbliche su schemi narrativi di contrapposizione già consolidati e facili da replicare.

Per converso, il dossier informativo di Mosca su Trump è rimasto trascurato sia per le sue scarse possibilità di successo alle presidenziali sia per via dei pochi aspetti da investigare in una vita con poca esperienza di politica estera istituzionale nel suo passato da Tycoon (come dimostreranno poi, una volta eletto, i suoi rapporti con Rex Tillerson, John Bolton e tutto lo State Department).

Non si spiegherebbe altrimenti perché già la mattina del 9 Novembre 2016, dopo lo shock della sconfitta della Clinton, il ministero degli Affari Esteri russo, preso in contropiede, cercò in affanno nell’accademia Russa degli analisti-esperti di Trump (per intenderci, alla Germano Dottori), di cui era totalmente sprovvisto al proprio interno.

L’“Un-guided-missile” Trump aveva vinto sul “Devil-you-know” Clinton e stava aprendo scenari nuovi ed imprevedibili a una diplomazia e a un Paese che non amano navigare ad orizzonte quotidiano, in particolare nella politica di potenza estera.

Russiagate? Nessuno (anche a Mosca) puntava su Trump. Scrive Pellicciari

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