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L’affaire iraniano spaventa le imprese italiane. La guerra con gli Usa, solo sfiorata, sta presentendo piano piano il suo conto al sistema produttivo italiano, già alle prese con una ripresa che più fiacca di così non potrebbe essere. Il petrolio negli ultimi giorni è salito fino a 65 dollari al barile, per poi ripiegare a 59 dollari. Per un Paese come il nostro, che importa energia quasi per il 90%, è un gran problema. Se ne sono accorti anche in Confindustria (qui l’intervista al dg Marcella Panucci), sfornando questa mattina un report che tocca per la prima volta i possibili effetti sulla nostra economia della crisi iraniana e libica.

OCCHIO ALL’IRAN (E ALLA LIBIA)

“Nelle ultime settimane”, scrive Confindustria, “sono molto cresciute le tensioni geopolitiche internazionali con epicentro in Libia ed Iran, coinvolgendo l’Iraq. Trattandosi di tre importanti produttori petroliferi, ciò potrebbe determinare ripercussioni sull’economia di molti Paesi dipendenti dall’import di energia, compresa l’Italia”. Meno male che finora il contraccolpo della crisi sul prezzo dell’oro nero è stato limitato. “Il prezzo del Brent è rincarato poco, rispetto a shock petroliferi del passato: nel corso di dicembre 2019 è salito di 5 dollari al barile, a gennaio 2020 inizialmente di altri 3 dollari, arrivando fino a 69, per poi rientrare in parte. Una possibile spiegazione è che, da fine 2018, le importazioni di petrolio dall’Iran si sono già azzerate in vari Paesi (anche in Italia) a seguito delle sanzioni Usa”, spiegano da Viale dell’Astronomia.

I RISCHI PER L’ITALIA

Confindustria però, mette le mani avanti. L’attuale rientro del prezzo del greggio non vuol dire che la tregua possa e debba durare a lungo. In quel caso, sarebbero guai per l’Italia. “Il petrolio caro frenerebbe il Pil perché un’energia più costosa sottrae risorse a famiglie e imprese nei Paesi importatori, come l’Italia. Perciò, tende a frenare la dinamica di consumi e investimenti. Simulazioni con il modello econometrico Centro Studi di Confindustria indicano che un prezzo del petrolio a 70 dollari nel 2020 (dai 63 previsti in precedenza) avrebbe un impatto sul Pil in Italia di -0,1% all’anno. Se il Brent arrivasse a 80 dollari, sulla scia di una crisi più acuta, il Pil potrebbe perdere lo 0,2%, erodendo la crescita già anemica. A ciò si potrebbe sommare l’impatto derivante da un ribasso della Borsa, sulla scia di maggiore incertezza e aspettative più negative per l’economia”. Senza considerare che il rincaro dei prezzi energetici, oltre a frenare la spesa, avrebbe l’effetto aritmetico di alzare l’inflazione, che da tempo ha una dinamica molto bassa (in Italia +0,5% annuo a dicembre), verso l’obiettivo del 2%. Addirittura “ciò potrebbe significare la possibilità di fermare il QE-2, iniziato a novembre, se ci fosse meno bisogno di alimentare l’inflazione”.

CONFINDUSTRIA (2)

ITALIA A SECCO?

C’è di più. In caso di escalation militare i rischi sarebbero elevati. Seri problemi potrebbero nascere se l’instabilità conducesse all’interruzione dell’estrazione di petrolio in giacimenti di Iraq, Libia e Iran. Nel 2019 l’import di greggio che prima proveniva dall’Iran è stato sostituito in Italia, in gran parte, proprio con quello iracheno, arrivato a contare il 20%: se si infiammasse anche l’Iraq sarebbe difficile trovare rapidamente altri fornitori. Lo scenario peggiore, dice Confindustria, è quello del blocco delle forniture petrolifere che passano dallo stretto di Ormuz, già minacciato in passato: nel 2019, il 27% del petrolio importato dall’Italia proveniva dai Paesi che si affacciano su tale stretto. Ciò potrebbe creare problemi anche per i volumi di approvvigionamento di petrolio, oltre che per il prezzo. Se si considera l’intera area cosiddetta Mena, ovvero Medio Oriente e Nord Africa, la dipendenza petrolifera italiana è molto alta: nel 2019, il 44% del petrolio importato veniva da tali Paesi (54% nel 2018).

UNA PIATTAFORMA PER IL MEDITERRANEO

Eppure, in mezzo a tutti questi rischi, c’è un’opportunità per l’Italia. Il nostro Paese potrebbe essere la piattaforma logistica naturale per nuove rotte commerciali nel Mediterraneo, verso Nord Africa e Medio Oriente, a beneficio delle nostre imprese. Già oggi sono forti i legami economici con tale area. L’Italia detiene una quota di mercato del 5,3%, posizionandosi al 4° posto come fornitore dei Mena dopo Cina, Usa e Germania. I Paesi Mena nel complesso rappresentano il nostro 2° mercato di destinazione, sia in termini di presenza di Pmi esportatrici, che di valore delle merci vendute. E si tratta di un mercato di sbocco in crescita: si stima che nel 2030 in tali Paesi la classe media, cruciale per i consumi, crescerà di 100 milioni di persone, esprimendo una domanda addizionale pari circa al Pil italiano attuale. Sono già intensi anche i legami diretti: il 10% dei capitali italiani investiti all’estero è impegnato in questi paesi e l’Italia è una fornitrice netta di servizi ad alto contenuto tecnologico. Ma solo una stabilizzazione di Iran e Libia e di altri Paesi dell’area può sbloccare nuove opportunità per l’economia.

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