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Dunque, per rifare un ponte grande e grosso come quello di Genova, possono bastare, in Italia, circa 2 anni. Questa evidenza restituiscono le immagini della posa dell’ultima campata, viste in queste ore.

Non è sempre così. Anzi, più spesso le cose non vanno così.

Intendiamoci, il ponte di Genova non è una vicenda come tante. Orgoglio ferito e rimorso feroce, tragicamente schiacciati dal peso di ben 43 morti evitabili, hanno creato una miscela (anzitutto, voglio già anticiparlo, sul piano motivazionale) unica. Ne è derivato un impasto di scelte non convenzionali: concentrazione di poteri (statali) in capo ad un’autorità pubblica “di prossimità” (il sindaco di Genova), cioè più vicina al territorio ferito e quindi meglio in grado di coglierne esigenze e umori, affidamento dei lavori ad un consorzio ad hoc (consorzio “PerGenova”, formato da Fincantieri Infrastructure e Salini Impregilo), con dentro un’eccellenza italiana di livello planetario, partecipata dallo Stato, e, infine, “tocco magico” – sospeso fra genio e mecenatismo – di un maestro come Renzo Piano, affinché il nuovo ponte fosse sì utile ed efficiente, ma anche monito e memoria.

Il cantiere non si è fermato neppure con il coronavirus, desideroso com’era di segnare un momento di riscatto (anche se le vittime restano e resteranno tutte, nel ricordo comune) all’insegna di una determinazione di rara tenacia, ai limiti del feroce.

Qualcosa di simile (anche se non di eguale) accade ai tempi della Concordia, quando – con un’operazione che tenne per qualche ora il mondo con il fiato sospeso – fu compiuta l’impresa, sulla carta temeraria, di rimettere a galla e avviare alla demolizione una nave gigantesca, fracassata sugli scogli dell’isola del Giglio e lì rimasta adagiata per mesi e mesi, a sfregio dell’immagine e della reputazione di un Paese intero. Anche in quel caso, la soluzione fu alla fine trovata in un mix di genio (tecnico), capacità realizzativa (a suo modo espressione di quel made in Italy che ci distingue in tanti campi), e determinazione (feroce). Una ricetta che, con l’essenziale ausilio di un’equipe di qualificati tecnici arrivati da tutto il mondo, si rivelò vincente.

Due vicende molto sfidanti, affrontate senza indugi e con un modo “non ordinario” di vedere le cose, prima, e di fare, poi. Due grandi battaglie, finite in due grandi vittorie.

Un trionfo della sola “tecnica” (nell’assortimento e allocazione dei poteri pubblici necessari, per un verso, e nella messa in campo delle migliori capacità realizzative, per altro verso)? No, la tecnica da sola non basta a spiegare il nuovo ponte di Genova e il recupero della Concordia. Come dimostrano i tanti casi nei quali l’affidamento di poteri straordinari ad un commissario governativo e il coinvolgimento di operatori economici di elevata qualificazione non si è affatto risolto in un successo di queste proporzioni, sul piano della portata del risultato finale e dei relativi tempi di conseguimento.

A fare – con evidenza – la differenza, in queste due vicende, è stato un ulteriore fattore: la voglia (fortissima) di arrivare al risultato programmato, che in tanti momenti ha dato l’impressione di essere inteso da più parti come una sorta di vero e proprio riscatto catartico (fermo quanto detto a proposito delle vittime, in ambedue i casi).

Si potrebbe essere tentati di dire: possibile che riusciamo a fare ottime cose solo quando vi sono decine di morti da piangere e fallimenti eclatanti da riscattare?

Se lo facessimo, cadremmo nel più abusato dei luoghi comuni. Credo che sarebbe infatti riduttivo e ingeneroso tessere le lodi degli italiani solo intorno e in occasione di vicende straordinarie come quelle del nuovo ponte di Genova o della Concordia. Esse di sicuro raccontano bene cosa siamo capaci di fare, se messi alla prova in condizioni estreme, ma nulla dicono di come sappiamo comportarci nell’ordinario.
Perché c’è anche un’Italia dell’ordinario, che – fattivamente e in silenzio – realizza ogni giorno risultati meno eclatanti ma di certo non meno degni di questo Paese, che resta grande e straordinario nonostante i tanti difetti e i tanti problemi. Ed è giusto ricordarsene, di un’Italia del fare – in ambito privato, così come in ambito pubblico – che riesce e realizza senza allo stesso tempo richiamare su di sé l’attenzione (perché non vuole o non riesce): quest’Italia esiste, a dispetto di una certa nostra folle e diffusissima pratica autodenigratoria, che non conosce eguali.

Abbiamo un problema, oltre che di narrazione anche di autonarrazione (se non, forse, di autostima)? Sì, lo abbiamo. E questo ci distingue da molti altri Paesi, che si autocelebrano al di là del giusto e del serio, oltrepassando, talora, la soglia del buon gusto, sino a sconfinare, in qualche caso, nel caricaturale.

Gli italiani non sono soltanto quelli del nuovo ponte di Genova o della Concordia, sono anche molto altro di positivo. Anche se lo danno a vedere meno. Anche se, soprattutto, lo tengono a mente poco.

Eppure sarà necessario darlo a vedere di più, e tenerlo a mente meglio, perché nel campo dell’ignoto e dello sconosciuto verso il quale la pandemia ci sta spingendo a grandi passi, di autocoscienza nei nostri grandi mezzi (se non, forse, di maggiore autostima) ne avremo maledettamente bisogno.

Il nuovo ponte di Genova e gli italiani del fare. La riflessione di Atelli

Dunque, per rifare un ponte grande e grosso come quello di Genova, possono bastare, in Italia, circa 2 anni. Questa evidenza restituiscono le immagini della posa dell'ultima campata, viste in queste ore. Non è sempre così. Anzi, più spesso le cose non vanno così. Intendiamoci, il ponte di Genova non è una vicenda come tante. Orgoglio ferito e rimorso feroce,…

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