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Sulla riforma Bonafede la politica italiana guarda al dito e non alla Luna. Ne è convinto Francesco Cananzi, magistrato, già membro togato del Csm (Consiglio superiore della magistratura), appena eletto segretario di Unicost (Unità per la Costituzione) nel suo congresso straordinario a Roma. La prescrizione è un aspetto importante dei tempi del processo, ma non è l’unico, dice a Formiche.net il gip al Tribunale di Napoli.

Il governo ha trovato un compromesso sulla prescrizione. Il suo bilancio?

Mi sembra un dibattito strumentalizzato per ragioni politiche. Ci sono ragioni di carattere tecnico e valori costituzionali in gioco che richiederebbero maggiore sensibilità e non una tensione politica sottostante. Ma soprattutto più serenità.

Si parla troppo della prescrizione e poco del processo?

La prescrizione è un aspetto, non è tutto. La giustizia e il processo penale hanno una complessità che non si risolve solo con questo istituto, servono interventi di carattere globale, come incentivare i riti alternativi e investire in risorse e personale.

Qual è allora la vera urgenza?

La durata del processo penale. La prescrizione interviene per prevenire un’eccessiva durata del processo. Ma per ridurla ci sono altri interventi sul diritto sostanziale.

Ad esempio?

La riduzione del numero di reati che affollano gli uffici giudiziari italiani. Numeri alla mano, sono troppi i reati che si prescrivono rispetto ai processi che si celebrano. Questo è, a prescindere dalle opposte visioni, un fallimento del sistema giustizia.

Di quali reati parliamo?

L’esempio fra i tanti è la guida senza patente. Un reato che prima è stato depenalizzato e oggi invece è tornato a essere rilevante nel caso di una recidiva. Per un reato del genere viene coinvolto un numero incredibile di magistrati. Non è pensabile il dispendio di tante energie e persone. Una parziale depenalizzazione permetterebbe di non gravare eccessivamente sui tribunali e di potersi concentrare sulle condotte di maggior rilievo con più efficacia.

Basta per ridurre i tempi del processo?

Ci sono altri nodi da sciogliere. Il tema dell’oralità rientra fra questi. Oggi sostanzialmente la prova si forma a dibattimento. Il principio è giusto, ma non sempre è possibile applicarlo in modo corretto. Spesso i testimoni si presentano in tribunale ad anni di distanza dal fatto compiuto, questo tradisce lo spirito del Codice. E comporta delle serie complicazioni procedurali.

Ovvero?

Pensi a un’operazione di polizia giudiziaria avvenuta, tre, quattro anni fa. Un sequestro di droga da parte di un appuntato che oggi, a distanza di anni, deve presentarsi in aula, magari arrivando da molto lontano, rileggere il verbale per ricostruire la vicenda. Una ipocrisia. Tanto vale prendere atto della realtà e richiedere l’oralità solo quando necessario.

Secondo Piercamillo Davigo anche gli avvocati hanno le loro responsabilità. Il 15% dei ricorsi in Cassazione è per patteggiamento…

L’avvocato è l’interprete del diritto di difesa, un diritto costituzionale intangibile, e dunque persegue l’interesse dell’assistito con tutte le forme che l’ordinamento gli attribuisce. Porre limiti al diritto di difesa è una forzatura. Devono cambiarsi le regole del processo, ma a Costituzione vigente il ricorso in Cassazione non si tocca. 

Torniamo alla riforma. La convince il lodo Conte bis?

Rispetto all’evoluzione che ha avuto l’ipotesi di riforma, di cui ancora non si conosce il testo definitivo, mi sembra una soluzione che può avere un suo equilibrio. Il ragionamento alla base non è sbagliato. Nel caso di una assoluzione in appello, è previsto il recupero dei termini di prescrizione rimasti bloccati. Il problema è di metodo, prima che di contenuto. Mi auspico che si arrivi al disegno di riforma finale con un clima diverso.

Il governo invece ha cassato il lodo Annibali, che rimandava la riforma di un anno. Era una buona idea?

Si tratta di scelte prettamente politiche. Cominciare dalla prescrizione per poi intervenire subito dopo sul processo può essere la strada per dare inizio a una riforma urgente. Torno a dire, però, spetta alla politica e non alla magistratura decidere.

Si discute di una riforma del Csm dopo il caso Palamara. Dove si deve intervenire?

Credo che la prima riforma sia quella elettorale. Il Csm non ha bisogno di bipolarismi, di maggioranze precostituite, bensì di garantire la rappresentanza delle diverse sensibilità culturali esistenti in magistratura, ripristinando un rapporto di fiducia fra rappresentato e rappresentante.

Come?

Un sistema proporzionale garantirebbe questo risultato. Ma il vero auspicio è di metodo: che il ministro Bonafede si confronti con il Csm e con la magistratura associata sulla riforma. È questione troppo delicata non solo per l’indipendenza della magistratura ma per il Paese.

Cananzi, Unicost l’ha appena eletta segretario in un congresso intitolato “Un nuovo inizio”. Ci sono i presupposti per voltare pagina?

Unicost, a differenza di altri, ha tenuto una linea di rigore e di autocritica. Il documento finale afferma la volontà di rifondarci promuovendo nella prassi i nostri valori: non collateralismo con alcuna parte politica, salvaguardare il potere diffuso della magistratura a dispetto di ogni gerarchizzazione, rifuggire logiche aziendalistiche che rischiano di trasformare il magistrato in un burocrate. Accettando la sfida di una rinnovata etica della responsabilità del magistrato. Per attuare la Costituzione.

Non solo prescrizione. La ricetta di Cananzi (Unicost) per riformare il processo

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