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“Non mi sono mai sentita così vicina alla morte come in questo momento qui a Tripoli. Ci sentiamo perduti”; “non possiamo fare altro che attendere il nostro destino”. Sono alcune delle testimonianze che il New York Times ha raccolto in un video: uno spaccato della crisi libica, tra guerra civile e coronavirus (Internazionale l’ha tradotto in italiano). La guerra in Libia dura da sei anni, con start&stop continui: l’ultima ondata di combattimenti violenti è iniziata il 4 aprile 2019, quando il miliziano ribelle della Cirenaica, Khalifa Haftar, ha lanciato l’operazione con cui avrebbe dovuto conquistare Tripoli nel giro di “due settimane”. Voleva rovesciare il Governo di accordo nazionale (Gna) che l’Onu ha installato nella capitale a marzo 2016 – affidandolo alla guida di Fayez Serraj.

L’operazione di Haftar non ha funzionato, da dodici mesi si combatte e negli ultimi giorni il Feldmaresciallo dell’Est ha subito grosse perdite territoriali nella parte Ovest dell’hinterland tripolino. Il territorio libico che dalla capitale va fino al confine con la Tunisia è tornato nel giro di meno di 48 ore sotto il controllo del Gna. “Certi territori hanno passato più volte cambi di controllo. Magari sono conquiste territoriali non determinanti sul piano del conflitto, sebbene alcune aree come quella di Sabratha abbiano una loro importanza strategica. Tuttavia hanno un valore narrativo”, commenta a Formiche.net Arturo Varvelli, direttore dell’ufficio di Roma del think tank paneuropeo Ecfr (European council on foreign relations). Sabratha e Surman, riconquistate il giorno di Pasqua dal Gna, sono punti chiave per le rotte dell’immigrazione verso l’Europa, e sono importanti per quanto riguarda il quadro dei giacimenti energetici (non distante, più a est, c’è per esempio l’impianto Eni di Mellitah).

Varvelli spiega: “Le sconfitte degli ultimi giorni possono servire molto a invertire la retorica pro-Haftar. Dimostrano che Haftar non è così invincibile come spesso viene descritto e la sua consistenza militare non è poderosa. E vanno sommate alla decisione di strozzare economicamente Tripoli facendo bloccare i pozzi petroliferi e a quella di innescare una crisi nella crisi chiudendo gli acquedotti è molto dura. Questo significa che anche ammesso che Haftar riuscisse a conquistare la capitale, il rischio per lui è entrare a Tripoli non come sogna, da liberatore, ma come un invasore”.

Attualmente la forze del capo-miliziano dell’est, la milizia Lna, non sembra in grado di riorganizzarsi. Questo giovedì le unità del Gna – aiutate dal supporto tecnico della Turchia, che ha anche inviato a supporto della Tripolitania anche miliziani siriani e turcomanno – hanno continuato ad avanzare verso la base aerea di al-Watiya, roccaforte dell’Lna situata 70 chilometri a sud ovest di Sabratha. Il tracollo degli haftariani ha permesso alle forze del Gna di interrompere anche alcune delle linee di rifornimento che portano al fronte tripolino l’equipaggiamento che gli emiratini inviano (via Egitto) in Libia. Le armi arrivano in Cirenaica, a 700 chilometri dal fronte, hanno bisogno di lunghi trasferimenti: questo è anche uno dei motivi per cui la pressione di Haftar è molto debole.

Mentre la Turchia è allineata al Gna, il Golfo sta con Haftar. Fa eccezione il Qatar, partner turco: è qui che si disegna la separazione tra i fronti dietro ai due blocchi libici. Da un lato i Paesi dello status quo (Emirati, Arabia Saudita, Egitto), dall’altro coloro che hanno un’interpretazione dell’Islam differente. “Dobbiamo metterci nell’idea che ormai la Libia è diventata una proxy war. Temo che nessuno pensi più che la crisi possa sistemarsi nel breve periodo. C’è una sorta di rassegnazione. I combattimenti andranno avanti così per diverso tempo, anche perché la crisi si sovrappone alla pandemia in Europa. La Libia conta per l’Occidente, ma la priorità nel corso del tempo si era già un po’ spostata: sull’immigrazione, per esempio, che non è certo l’unico fattore d’interesse”, aggiunge Varvelli. Dalla “rassegnazione” si sono aperti spazi per il regolamento di conti tra pesi massimi del mondo sunnita, in un confronto tutto intra-islamico.

L’Occidente ha prodotto la conferenza di Berlino a inizio anno, quella che teoricamente ha sancito un cessate il fuoco che avrebbe dovuto essere l’apertura di una tregua duratura e l’avvio di negoziati. Ci sono stati contatti a Ginevra fra delegazioni delle parti in guerra, ma il dialogo è naufragato rapidamente perché sul campo i combattimenti – a scatti di intensità – sono continuati. Non appena ripresi, i colloqui si sono rapidamente interrotti – senza grandi risultati – a causa del coronavirus, che ha colpito l’Europa e che in Libia viene considerato un elemento di massima attenzione perché se l’epidemia dovesse dilagare potrebbe avere effetti devastanti.

Le strutture medico-sanitarie del Paese sono completamente inadeguate a resistere a un’ondata virale. Anche per questo la Turchia sta cercando di inviare aiuti consistenti a Tripoli, mentre la questione-virus è diventata campo di battaglia per l’infowar tra le due parti. ” I combattimenti non si sono fermati nemmeno dopo che l’Onu ha chiesto uno stop legato al rischio epidemico. Francamente non vedo metodi diversi dallo stop delle sponsorizzazioni esterne per risolvere la crisi. Fermare le armi, sul serio, potrebbe permettere di lasciare senza linfa militare le due parti, e magari portarle seriamente al tavolo dei colloqui. Ma chi ha volontà di farlo?”, aggiunge il direttore dell’Ecfr.

L’Europa ha strutturato un’operazione militare, “Irini”, che ha come compito quello di controllare il rispetto dell’embargo che l’Onu ha imposto sulle armi in Libia anni fa, e che viene continuamente violato – con crescente intensità negli ultimi dieci mesi. L’operazione ha avuto l’appoggio di diversi Paesi, tra cui la Grecia che si è offerta di aprire i porti per ospitare gli eventuali migranti soccorsi secondo il diritto del mare. Una mossa solidale di Atene, che però potrebbe celare un’esigenza strategica: la sovrapposizione del dossier libico al quadro EastMed e al confronto politico territoriale con la Turchia. Il rischio della missione europea era di generare un pull factor – lo stessi della precedente missione, “Sophia”. Il tema è stato sollevato da vari Paesi (tra cui l’Italia).

La mossa di Atene è strategica: la Turchia, rivale greca, ha dimostrato un interessamento per la Libia legato al quadro mediterraneo – l’accordo di cooperazione militare si collega per esempio a un altro che ha permesso la giuntura delle fasce Zee dei due Paesi, tagliando l’area geopolitica EastMed a danno della Grecia. Atene ha fornito supporto logistico nella gestione dei flussi migratori drammaticamente ripresi in questi mesi, e potrebbe chiedere in cambio all’Ue un irrigidimento dei rapporti con la Turchia?  Non è forse un caso allora se Ankara sta lavorando intensamente per assistere i Paesi europei (anche gli Usa) contro il coronavirus.

Tornando alle questioni interne alla Libia, Varvelli evidenzia che “adesso dovremmo guardare cosa succede al Gna, perché sembra evidente che Serraj non durerà all’infinito. E ci sono politici molto attivi che stanno crescendo di presenza e forza, come il ministro dell’Interno Fathi Bashaga“. Bashaga è un misuratino considerato vicino alla Fratellanza musulmana e per questo molto ben collegato con la Turchia e il Qatar. Potrebbe assumere ruoli più apicali? “Magari, è presto per dirlo, ma sta diventando più forte all’interno della Tripolitania, e d’altronde può intestarsi queste recenti vittorie, frutto del sostegno turco”.

Libia ancora senza pace (ma Haftar perde terreno). Parla Arturo Varvelli

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