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È iniziata la narrazione estetizzante, tecnologizzante e generazionalizzante della catena di conflitti sociali e politici scatenatisi nell’ultimo biennio in tutto il mondo.

Dagli agricoltori olandesi, tedeschi e francesi, dai penultimi francesi suburbani, piccoli imprenditori, artigiani, manifestanti settimanalmente tra violenze e riattualizzazioni di pratiche da jacquerie medievali, invocanti rois taumaturgiques; dai libanesi post comunitari, sciiti, sunniti, drusi, maroniti precipitati nella lotta di tutti contro tutti; dai peronisti redivivi perché mai sepolti agli argentini liberali che non hanno mai liberato se stessi dal mito yankee.

Quando si parla di questi e altri sommovimenti è giusto invitare alla falsificazione di questa filastrocca rassicurante e distorsiva. Non si tratta – prevalentemente – come si diceva un tempo quando esisteva la sociologia – della variabile indipendente identificata con la lotta tra generazioni oppure la lotta contro i politici tout court (la casta! la casta!) oppure la lotta alla corruzione (al grido di onestà onestà e di manette per tutti e subito). Nulla di tutto ciò.

E tutto si può iniziare a comprendere guardando alla differenziazione crescente che la liberalizzazione globalizzata e finanziarizzata ha provocato in tutte le società, avviando due processi storicamente concreti, ossia particolari e solo apparentemente universali, perché le società esistono e non sono scomparse Si tratta di fenomeni da comprendere uno alla volta.

Si pensi al Cile, esemplare processo storico insieme generale e particolare, che ci insegna a ragionare. Tutto il Cile è sconvolto da una rivolta ininterrotta che coinvolge tanto le classi medio basse quanto le classi lavoratrici dipendenti e salariate, quanto le mucillagini sociali marginalizzate del lavoro autonomo.

Eppure la vulgata era tutta diversa. Il clima sociale cileno rifletteva per molti la macchina dei partiti, un sistema della politica istituzionalizzato in tutta l’America del Sud e portato a modello dai manuali di sociologia politica mainstream. Ma questo modello nascondeva e nasconde una grande verità mai evocata, ossia che il ritorno della democrazia in Cile con la sconfitta di Pinochet nel 1988 non ha coinciso con la ricostruzione del sistema di welfare che la democrazia cilena fondata negli anni venti e trenta del Novecento aveva costruito.

Il segreto risiedeva nei forti partiti politici che il Cile aveva saputo creare attorno alle culture politiche democristiana socialista e comunista in un accordo quasi secolare tra la massoneria di rito inglese e la Chiesa cattolica cilena. Un processo simile ma assai più fragile e discontinuo si era vericato in Peru grazie a pensatori insuperati come Mariategui e Haya de la Torre.

Un sistema di corpi intermedi potentissimo, soprattutto urbano, s’era avvoltolato con quelle conquiste sociali che la dittatura militare aveva sradicato con migliaia di arresti, torture, assassinii calibrati e diretti contro le élites e una democrazia che non ha più avuto uguali in America del Sud.

Dopo la caduta della dittatura né i democratici cristiani ne i più esaltati socialisti ( Bachelet docet ) hanno posto mano alla ricostruzione del welfare, lasciando intatte scuole e università privatizzate, il sistema pensionistico affidato alle assicurazioni collateralizzate con i derivati.

Nessuno si è occupato della sorte delle classi lavoratrici, affidate non a una ricostruita rete sindacale ma a una schiera di avvocati e magistrati che applicavano e applicano leggi riprodotte in Cile sullo sciagurato modello italiano post statuto dei lavoratori, emasculando i sindacati dei prestatori d’opera mentre di fatto favoriscono quelli dei datori e dei singoli imprenditori.

Appena le ragioni di scambio internazionali misurate dal prezzo del rame ( le miniere sono tutte privatizzate, naturalmente) e da quello delle derrate agricole di una agricoltura tra le più avanzate al mondo e aperta al mercato asiatico si sono invertite, e appena un capitalismo estrattivo ha iniziato a veder abbassato il suo tasso di profitto, la disoccupazione ha dilagato e le classi medie si sono viste gravate da un peso enorme per garantire la loro riproduzione sociale ( spese enormi per le pensioni, l’educazione dei figli, il prezzo delle case unitamente alla disoccupazione dilagante nelle reti suburbane e urbane).

Le lotte degli anni passati guidate dagli studenti comunisti non avevano trovato nessuna cristallizzazione politica e partitica e avevano favorito una destra accanita e storicamente filo-golpista ben rappresentata dall’attuale presidente Pinera, che non ha trovato altro di meglio che nominare responsabile della sicurezza pubblica un rampollo di una delle famiglie più tristemente coinvolte con gli omicidi e le torture politiche del passato.

Il Cile oggi è a una svolta che dovrebbe compiersi verso il ripristino di una nuova democrazia cristiano-sociale su cui vi è un accordo tra le élite più illuminate della nazione, ma che non si compirà perché il sistema dei partiti si è forse irrimediabilmente liquefatto sotto la spinta della disgregazione sociale liberista.

Un processo a cui non può contrapporsi il mondo dei social media, delle nuove favole della connettività. Esse non possono sostituire quella politica democratico-cristiana e social-comunista che aveva tenuto a freno una destra terribile, genocidaria, che ora rialza la testa come in Brasile, in Ecuador, in Bolivia e fortunatamente non ancora in Argentina.

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