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Qualcuno ha scritto che questa emergenza sanitaria somiglia alla tempesta perfetta, soprattutto per l’economia mondiale. Non so se si possa parlare di tempesta perfetta, ma sicuramente si può dire che ci sono tutte le condizioni per inserire nel processo d’integrazione europea la contraddizione perfetta.

Ho già scritto ampiamente sul fatto che raccontare il percorso d’integrazione europea come una serie di soli successi (quella che ho già chiamato la retorica del successo), o di soli insuccessi (la retorica del fallimento), sia (stata) una sciocchezza. Perché è semplicemente falso: l’Europa, almeno negli ultimi quarant’anni, ha proceduto su un percorso accidentato fatto di crescenti contraddizioni. Liberalizzare il movimento di persone e capitali (anni Ottanta) costringeva a creare un mercato unico (primi anni Novanta), al fine di evitare (alleviare) le distorsioni innescate dalle delocalizzazioni. Creato un mercato unico, esso doveva essere stabilizzato; e ciò non sarebbe stato possibile in presenza di divise nazionali diverse. Da qui l’euro (ultimi vent’anni). Che è l’ennesima contraddizione: perché una politica monetaria unica in presenza di politiche fiscali decentrate a livello nazionale o gestite unicamente in un’ottica di vincoli può andar bene in situazioni di crescita generalizzata. Non certo in caso di crisi, soprattutto se asimmetriche, come è accaduto a partire dal 2010.

Oggi emerge un’opportunità colossale per riprendere il camino dell’integrazione europea; quella di creare l’ultima grande contraddizione, che sarà prima o poi (speriamo prima) necessario sanare: attivare una fiscalità europea, anche senza un sistema di controllo democratico europeo. Mi spiego.

L’emergenza sanitaria sta generando una crisi simmetrica, che colpisce tutti i paesi europei. Una crisi che, in presenza di risposte nazionali (come quelle consentite dalla sospensione del Patto di Stabilità e Crescita), rischia di trasformarsi in una crisi strutturale asimmetrica. Con paesi che potranno permettersi, grazie ad indicatori fiscali pubblici migliori (deficit e debito), e quindi di migliori condizioni di indebitamento sui mercati finanziari, di intervenire più pesantemente per salvare e far ripartire la propria economia. Ed altri che potranno solo reagire con misure insufficienti; magari senza nessun controllo sulla destinazione dei fondi, che potrebbero finire per disperdersi nei rivoli decisi dalle corporazioni nazionali. E creando così i presupposti per una distruzione definitiva del tessuto di solidarietà europea che si era iniziato a veder rifare capolino in alcune, poche, occasioni.

È il momento di decidere, insieme e subito, di destinare una quota del PIL per rilanciare una crescita che rischia di essere schiacciata dalla dimensione del crollo che stiamo registrando in queste settimane, e che si amplierà nelle prossime. Per far questo va bene qualsiasi cosa, anche il MES, che è una società privata detenuta dai governi dell’eurozona; soprattutto se utilizzato nell’immediato per tamponare le esigenze di spesa sanitaria e sostegno agli ammortizzatori sociali nazionali; ma in un’ottica collettiva, visto il possibile impatto sulla tenuta dell’euro. E con una condizionalità ad-hoc, completamente riscritta rispetto all’assistenza finanziaria oggi prevista.

Allo stesso tempo occorre avviare un percorso privilegiato, una corsia preferenziale, per riscrivere il bilancio UE in modo che finanzi beni pubblici collettivi europei, sia con i tradizionali contributi nazionali (va bene anche fermarsi all’1% del PIL) sia con risorse proprie (ad es. una tassa sulle emissioni da raccogliere su beni in ingresso nella UE, la tassa sulle transazioni finanziarie, sul gioco d’azzardo, sul fumo, etc), raggiungendo un tetto, diciamo, del 3% del PIL europeo. Fondi per la ricerca, l’innovazione, la transizione ecologica ed energetica, le infrastrutture di comunicazione e trasporto, le piattaforme digitali. Tutti beni che in questo momento di emergenza ci accorgiamo di quanto preziosi siano; e che lascar fornire in modo frammentato ed incoerente a livello nazionale costituirebbe un folle spreco di risorse. Anche forzando l’interpretazione dei Trattati per non dover attendere che vengano riformati per dare concreta attuazione a misure non procrastinabili.

Si tratta, in sostanza, di creare uno strumento fiscale collettivo, anche se in mano ai governi e non ai cittadini. Un’ennesima contraddizione, quindi. La contraddizione cruciale degli ordinamenti anglosassoni, secondo i quali vale il motto “no taxation without representation”: non si può tassare qualcuno che non ha il diritto di dire la sua sulle imposte. Una forma di fiscalità illegittima, o se si preferisce mediata dalla sola legittimità dei governi nazionali, quindi incompleta. Ma una contraddizione realistica, realizzabile in tempi rapidi, e nell’interesse di tutti.

Una contraddizione che andrebbe naturalmente sanata, lanciando finalmente un percorso costituente che veda davvero i cittadini protagonisti nella scrittura del patto di convinvenza civile in Europa, artefici dell’architettura istituzionale che meglio risponda alle loro esigenze ed ai loro bisogni. Urgentemente. Magari in vista delle prossime elezioni del Parlamento Europeo o con una convenzione ad-hoc. Ma almeno sarebbe l’ennesima contraddizione che consente/costringe la UE a muoversi dall’impasse in cui si trova da ormai due decenni.

La contraddizione perfetta

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