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Due persone a bordo di una moto si sono avvicinate questa mattina, attorno alle 11, alla pattuglia che presidiava uno dei checkpoint che protegge l’ambasciata americana di Tunisi. I due hanno fatto finta di chiedere informazioni, poi hanno attivato i giubbotti esplosivi e si sono fatti saltare in aria. Un agente è rimasto ucciso, quattro feriti.

“Sebbene non ne farei una lettura sensazionalistica, ma l’attentato è un avvenimento importante perché conferma quale sono gli obiettivi del jihadismo tunisino e regionale orientato contro gli interessi occidentali, ma allo stesso tempo conferma anche nella modalità come i gruppi abbiamo scarsi mezzi a disposizione”, spiega a Formiche.net Umberto Profazio, analista della Nato Defense College Foundation. “Le capacità di attacco e in termini di mezzi i gruppi terroristici tunisini sono state ridimensionate dalle attività di anti-terrorismo delle forze di sicurezza tunisine”, aggiunge.

La nota centrale è che il Paese finisce nuovamente sotto un attacco terroristico. La Tunisia merita particolari attenzioni perché è considerato uno Stato modello. È l’unico in cui le Primavere arabe si sono trasformate in qualcosa di effettivo, hanno prodotto un sistema democratico e incluso una formazione islamista che però si muove all’interno di schemi di diritto. Per questo il terrorismo organizzato considera il Paese come un bersaglio privilegiato. Si ricorderanno i vari attentati jihadisti organizzati dallo Stato islamico (quello sulla spiaggia di Sousse, o quell’altro al Museo Nazionale del 2015). L’Is anni fa aveva anche organizzato un vero e proprio assalto per cercare di conquistare una cittadina sul confine libico, Ben Gardane.

L’apparato di sicurezza tunisino ha ricevuto anche per questo sostegno diretto da vari Paesi occidentali, su tutti proprio gli Stati Uniti. Gli americani inoltre hanno iniziato a condividere con Tunisi informazioni di intelligence mirate all’anti-terorrismo – che uno dei grandi obiettivi per cui gli Usa hanno iniziato dei progetti di esercitazione congiunta con le forze di sicurezza locali (l’altro è garantirsi una presenza strategica davanti alle penetrazioni cinesi nella regione).

Il senso dell’attentato davanti all’ambasciata americana si lega anche a questo contesto. L’attacco per ora non è stato rivendicato, ma – come fa notare Agenzia Nova – potrebbe ricollegarsi all’uccisione del più influente jihadista della Tunisia, Seifallah ben Hassine, confermata nei giorni scorsi in un audio di oltre trenta minuti registro dall’emiro di al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqim), Abdelmalek Droukdel – per Aqim, il tunisino era uno dei leader prominenti, ed era membro del comitato della sharia del gruppo.

È probabile che Abu Iyahd, questo il nome de guerre, sia stato ucciso diverso tempo fa, ma soltanto adesso è stata annunciata e ammessa la sua eliminazione. Il leader islamista sarebbe stato eliminato a Timbuktu durante una missione dell’operazione francese Barkhane – che è un impegno antiterrorismo che Parigi porta avanti nel Sahel, col supporto anche americano, fin dall’agosto del 2014.

Ben Hassine è stato colui che ha fondato Ansar al Sharia in Tunisia, filiale del gruppo libico che l’11 settembre del 2012 fomentò una protesta popolare per attaccare il consolato americano di Bengasi uccidendo il capo missione Chris Stevens. Tre giorni dopo, proteste simili scoppiarono proprio davanti all’ambasciata Usa di Tunisi – obiettivo dell’attacco di oggi – e fu sempre Ansar al Sharia a guidarle. Erano state una risposta strumentale contro la diffusione di un film oltraggioso nei confronti di Maometto.

L’attacco odierno arriva in un fase piuttosto delicata per il Paese. A fine febbraio la Tunisia ha annunciato la nascita del nuovo governo, dopo sei mesi di trattative. L’esecutivo è stato creato come massimo sforzo politico da una colazione eterogenea che l’ha voluto più per uscire dall’attuale stallo istituzionale che per reale fiducia. Ma il nuovo governo, dovrà affrontare sfide importanti, come la debolezza economica (e occupazionale: la disoccupazione è al 15 per cento). E in più c’è la sfida istituzionale: con il presidente, Kais Saied, che spinge per una riforma presidenziale – vista da molti negativamente perché potrebbe mettere a rischio le esili istituzioni – il governo avrà il compito di mediare con il parlamento.

Il terrorismo organizzato cerca di riaffacciarsi nel Paese per seminare condizioni di instabilità che possano intaccare lo sviluppo del governo, seminare paura, perdita di fiducia nelle fragili istituzioni, creare proseliti contro le realtà che sta aiutando lo sviluppo del Paese. “Ci sono stati segnali che avevano fatto temere una ripresa su larga scala degli attentati, ma siamo molto distanti dal 2015 e 2016 quando la Tunisia si era trovata impreparata a contenere la minaccia. Anche l’attacco odierno, seppure conferma che va tenuta massima l’attenzione, conferma che è evidente che i gruppi terroristici e/o quelli estremisti sono in questo momento sulla difensiva. Ma provano tornare forti”, spiega Profazio.

Tunisia, così il terrorismo cerca di sfiancare il processo democratico

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