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Le relazioni internazionali ruotano attorno a due possibili scenari, con una serie di varianti e correttivi: la balance of power e la power politics. La prima, ereditata dal westfaliano cuius regio, eius religio e più tardi da Clemens von Metternich, ha avuto in Henry Kissinger il suo campione.

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La power politics viceversa trovò il proprio naturale e comprensibile interprete nel “polacco” Zbigniew Brzezinski. Il ruolo del pontificato di Karol Wojtyla raggiunse l’apice nel 1989-’90, quando Gorbaciov chiuse l’esperienza della Repubblica Democratica Tedesca per assicurare alla Polonia, ormai pluralista, una continuità territoriale e strategica con la Germania riunificata e con l’Occidente. La liquidazione del Patto di Varsavia e il collasso della stessa Urss ne furono il corollario all’insegna di quei nazionalismi, malattia senile del comunismo, che dalla Croazia alla Serbia, dalla Russia all’Ucraina, risuscitarono tutti i fantasmi del XX secolo. L’Occidente vincente, distratto dalla febbre delle tecnologie dot.com e dall’euforia finanziaria e commerciale del Wto e della globalizzazione, ridisegnava la mappa geopolitica dell’Europa con il duplice parallelo allargamento a Est della Nato e dell’Unione europea, archiviando il patrimonio della Csce e dell’Osce.

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A distanza di oltre trent’anni è profondo il disorientamento di tutti coloro che, all’indomani del crollo del sistema sovietico, avevano prefigurato e preconizzato un nuovo ordine internazionale basato sulla stabilità politica, la sicurezza condivisa e la crescita sostenuta. Il successo dell’Occidente con la fine della Guerra fredda e del bipolarismo che l’aveva contrassegnata, avviava l’era della globalizzazione finanziaria, commerciale e tecnologica su basi pragmatiche e non ideologiche nell’interesse generale. Il G7 accoglieva la Russia mentre la neonata Organizzazione mondiale del commercio salutava l’ingresso della Cina, nuova “fabbrica del mondo”, attraverso massicci processi di offshoring, di investimento e di trasferimento di tecnologia. Nell’era Vuca (Volatility, Uncertainty, Complexity, Ambiguity) dove rappresentazione e realtà spesso si confondono, la complessità dei fenomeni e la volatilità dei comportamenti aveva ben presto generato incertezze, contraddizioni e tensioni la cui portata ha assunto propulsioni allarmanti e aspetti traumatici. Oggi ci troviamo, infatti, ad analizzare e valutare ipotesi di un conflitto nucleare in Europa e in Asia, mentre vengono misurati l’impatto della de-globalizzazione delle supply chains e persino l’ipotesi concreta della riduzione del ruolo del dollaro nel sistema dei pagamenti internazionali e delle riserve ufficiali.

Come è stato possibile un rovesciamento di prospettive di tali proporzioni? Tre miscalculations ed errori di valutazione sono all’origine del deterioramento degli scenari.

In primo luogo, la sopravvalutazione della cosiddetta fine della Guerra fredda, cioè aver scambiato la transizione alla liberaldemocrazia e al mercato di sei paesi dell’Europa orientale e di tre paesi baltici per la fine dell’equazione che da secoli regola il rapporto di sicurezza tra la Russia e l’Europa centro-orientale. Nessuna architettura di sicurezza e di cooperazione in Europa, per effetto della paralisi dell’Osce, ha accompagnato gli allargamenti a est della Nato a guida Stati Uniti e dell’Unione europea a guida, soltanto economica, della Germania. Gli allargamenti della Nato erano anche privi di una dimensione economica transatlantica, mentre gli allargamenti dell’Unione europea erano privi di una dimensione di politica estera, di sicurezza e di difesa. […]

In secondo luogo, gli equivoci della globalizzazione […] con la Cina che non si è limitata al ruolo di “fabbrica del mondo” ad alta intensità di lavoro, ma si è proiettata a una crescita tecnologica […] e geoeconomica attraverso la Belt and Road Initiative e da ultimo con la crescente affermazione del renminbi negli scambi con le potenze petrolifere del Golfo, attratte dalla Shanghai Cooperation Organisation e dal movimento dei Brics.

Infine la sottovalutazione delle nuove, embrionali aggregazioni del Global South, dall’India al Brasile ed al Sud Africa con ramificazioni nei rispettivi continenti attorno al formato dei Brics allargato. […] The West and the Rest, dall’arrogante titolo dell’opera di Niall Ferguson, si propone come una sfida che in particolare l’Europa, attempato gigante economico e perdurante nano politico, si trova a fronteggiare in un contesto reso ancora più problematico dalle concomitanti transizioni energetica e digitale, frutto di un approccio tecnocratico intempestivo e maldestro nel mezzo di una “policrisi” epocale. […]

Il XX secolo che tutt’ora proietta le sue aree di crisi e i loro soggetti, statuali e non statuali, nel XXI: dall’Estremo Oriente al Medio Oriente, dall’Asia centrale al Mar Nero, dal Mediterraneo al continente africano. La tesi di Hobsbawm del “secolo breve” rifletteva l’universo di un intellettuale comunista che circoscriveva il Novecento agli anni tra il 1917 e 1991 […]. Viceversa quel secolo lunghissimo proietta fino ai giorni nostri antagonismi e tensioni addirittura ereditate dalla fine dell’800: basti pensare al “grande gioco” russo-britannico, ovvero agli effetti del collasso dell’Impero ottomano, dalla Siria alla Libia, fino al perdurante equilibrio nucleare del terrore tra Washington e Mosca.

Finanza e tecnologia, tra innovazione sfrenata e bolle devastanti, alimentano l’illusione e le ansie di una contemporaneità al tempo stesso creativa e distruttiva: clima, pandemie, migrazioni, guerre sotto la spinta di una comunicazione ansiogena, mediatica e dei think tank che sconfina nella propaganda si sommano alle cosiddette transizioni, da quella energetica a quella digitale. […]

Mentre l’Occidente ricerca la sintesi strategica e di sicurezza nel rilancio di alleanze militari anacronistiche, la Russia ha ricercato la propria in una avventura bellica tanto destabilizzante quanto maldestra. Mentre nuovi materiali e microcips inondano i mercati di beni superflui e condannati alla obsolescenza precoce e programmata, la cultura woke processa il passato con i suoi fantasmi e il transumanesimo prepara un futuro di androidi e robots.

Ma la società reagisce, sia pur confusamente, con dinamiche trasversali dove da tempo le nozioni di Destra e Sinistra si incrociano in una contaminazione osmotica che ha in comune il rifiuto delle oligarchie e delle loro piattaforme tecnocratiche.

Ancora una volta le ambiguità dell’era Vuca, risultanti da vulnerabilità, incertezza e complessità, sembrano esprimere l’aspirazione al superamento della nozione di società, in evidente crisi di valori e di interessi, anche con il recupero di una equivoca cultura völkisch. È latente il recupero della nozione di comunità dove le nazioni, con le loro articolazioni locali, corporative, culturali e religiose, costituiscono la base, antica e nuova, dell’organizzazione politica ed economica.

Si tratta della grande sfida della nostra epoca e forse della vera fine del XX secolo.

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