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Cinque anni fa, quattro delle principali multinazionali occidentali della revisione contabile con sede (anche) ad Hong Kong (Ernst & Young, Deloitte, KPMG e Pricewaterhouse) pubblicarono a proprie spese un annuncio che fece discutere. In sostanza, ventilavano l’ipotesi che i propri clienti potessero fuggire dal paese se fosse andata avanti la transizione democratica, volta a portare il suffragio universale e libere elezioni (peraltro già previsti dall’accordo con la Gran Bretagna del 1997) per le scelte della rappresentanza politica di HK.

Una questione non da poco, visto che Hong Kong basa il suo status privilegiato proprio sull’esistenza di un centro finanziario su scala globale.

Quella volta l’annuncio fu seguito da un nulla di fatto, e la situazione politica si stabilizzò negli anni seguenti. Fino a qualche mese fa, quando le proteste di piazza hanno riacceso i riflettori su questa ex-colonia britannica, ora “territorio autonomo” della Cina. Una definizione ambigua, che si presta evidentemente a gradi ampiamente diversi di autonomia e democraticità.

Quella che si sta giocando ad Hong è una partita complessa e delicata, con risvolti molto più ampi di quanto si tenda normalmente a pensare. In gioco ci sono interessi enormi e potenze mondiali che si trovano fra loro già in una dinamica fortemente conflittuale, oltre che in alleanze mutevoli e precarie: USA, Cina, Gran Bretagna, solo per citare le maggiori. Da qui il risalto ricevuto dalle notizie dei risultati elettorali per il rinnovo della rappresentanza distrettuale che si occupa dell’amministrazione ordinaria della città. Risultati che hanno visto un’affermazione schiacciante del fronte della protesta e una sconfitta sonora per il partito filo-Pechino. Naturalmente sarebbe ingenuo immaginare che anche la protesta non sia (o non sia stata) strumentalizzata da potentati economici e politici. È la tesi, anche se non esplicita, di Pechino.

Ora, è vero che il risultato delle elezioni distrettuali non ha praticamente alcun valore per il cambio di strategia di Hong Kong nei confronti della Cina: nelle elezioni per il governatore, infatti, i rappresentanti distrettuali pesano solo per una minima parte, e sono ampiamente  controllate dalla Cina attraverso il partito. Ma quello che conta è il segnale politico. La reazione della Cina è stata ferma, per ora: “Hong Kong fa parte della Cina, indipendentemente dal risultato elettorale”. Ma non può continuare ad ignorare una intera popolazione che ha lanciato un messaggio chiaro.

E soprattutto non può ignorare un segnale che va in controtendenza rispetto a quanto accadde cinque anni fa: la reazione della borsa al risultato è stata ampiamente positiva; e questo induce a ritenere che la business community abbia cambiato orientamento ed abbia fatto una diversa scelta di campo. Forse un altro tassello nella battaglia ormai globale fra Cina e Stati Uniti.

In ogni caso, a mio modesto avviso, la Cina ha sbagliato ad opporre i militari (trent’anni dopo Tienanmen) agli studenti, in piazza per una maggiore autonomia e democrazia. Vi sono battaglie che richiedono uno scontro frontale, altre che possono essere guidate, piegate, al limite infiltrate, ma non combattute apertamente. Perché il rischio è che si finisca di combattere non tanto contro un popolo ma contro la Storia… che è un po’ più dura da sconfiggere.

La Storia non si ferma ad Hong Kong

Cinque anni fa, quattro delle principali multinazionali occidentali della revisione contabile con sede (anche) ad Hong Kong (Ernst & Young, Deloitte, KPMG e Pricewaterhouse) pubblicarono a proprie spese un annuncio che fece discutere. In sostanza, ventilavano l’ipotesi che i propri clienti potessero fuggire dal paese se fosse andata avanti la transizione democratica, volta a portare il suffragio universale e libere…

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