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A meno di due settimane dalla conferenza internazionale di Berlino, che doveva indicare la via per consolidare un’esile tregua, lo scontro diplomatico sulla Libia segue di pari passo il riavvio dei combattimenti. Quella militare è tutt’altro che un’opzione impossibile per i due fronti in campo. Gli sponsor reciproci lo sanno, e schiacciano l’acceleratore. A Tripoli, il Gna, acronimo del governo internazionalmente riconosciuto, riceve aiuti militari di vario genere dalla Turchia. In Cirenaica, il signore della guerra Khalifa Haftar, che dieci mesi fa ha avviato la campagna per rovesciare il Gna e conquistare l’intero Paese, s’è visto aumentare il sostengo dagli Emirati Arabi Uniti e in parte dall’Egitto.

Dietro, o forse sopra, si muove il confronto diplomatico feroce. Eppure oggi il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, in audizione nelle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato ha detto che sulla Libia “persistono posizioni diametralmente opposte, ma finalmente abbiamo un percorso condiviso dai principali attori”. Di Maio insiste sul fatto che “abbiamo sempre cercato, sia come Italia che come Ue, una soluzione diplomatica”, ma quella soluzione diplomatica al momento non è la prima opzione per libici combattenti e forse soprattutto per i loro sponsor. I veri “attori principali”.

Ieri in un attacco dell’artiglieria di Haftar a sud di Tripoli sono morti quattro bambini. Un razzo Grad è caduto nel cortile di una scuola. Adesso è difficile anche solo pensare che dalla Tripolitania non si voglia vendicare il sangue degli innocenti. C’è una guerra in corso, d’altronde.

Di Maio ha parlato anche della necessità di monitorare il rispetto dell’embargo Onu sulle armi secondo quanto previsto a Berlino. Il problema è che dai giorni della Conferenza a oggi, gli afflussi di armi in Libia si sono moltiplicati su entrambi i fronti. D’altronde non c’è nessun genere di meccanismo di monitoraggio attivo, e le buone volontà non collimano con gli interessi in campo.

Sul trasferimento di armi ruota in questo momento lo scontro diplomatico. Ieri il presidente francese, Emmanuel Macron, ha accusato la Turchia di “una violazione esplicita e molto grave di ciò che è stato concluso a Berlino” perché “le navi turche accompagnano i mercenari siriani che arrivano sul suolo libico”. È una critica giusta ma “miope”, come dice un diplomatico francese al Monde. “Haftar ha costruito la sua forza con la violazione dell’embargo. Non una sola arma in suo possesso è entrata legittimamente. Denunciando solo la Turchia senza citare gli Emirati Arabi Uniti che armano Haftar, la Francia sta mostrando la miopia”, dice.

Forse non è solo miopia, ma doppio standard ben oculato. E d’altronde questo scontro diplomatico si basa sugli interessi. Gli emiratini vogliono la Libia per questioni strategiche (chi è interessato ad approfondire può farlo con l’analisi egregia che l’esperto di Golfo dell’Ecfr Cinzia Bianco ha fatto su queste colonne). E la Francia ha ad Abu Dhabi, come al Cairo, dei grossi clienti, prima di tutto nel mercato degli armamenti. Rapporto che s’è poi costituito in qualcosa di più.

D’altronde val la pena ricordare che Macron parlava con al suo fianco Kyriakos Mitsotakis, primo ministro greco. Atene e Parigi sono perfettamente allineate (con Cipro, Egitto e Israele) all’interno del quadro geopolitico di EastMed. Sistema che ruota attorno al gas dei reservoir del Mediterraneo orientale per diventare un polo di integrazione.

Contro invece s’è schierata la Turchia. L’accordo militare con Tripoli è la seconda facciata di un’intesa che riguarda anche l’unione delle Zone economiche esclusive turco-libiche per tagliare il quadrante EastMed. Ankara ha rapidamente replicato a Macron, sostenendo che l’appoggio francese al lato haftariano sia percepito dal governo turco come “una minaccia”. Val la pena di ricordare con un breve inciso che Turchia e Francia sono alleate Nato.

Non è un caso dunque se ieri il ministro Di Maio abbia chiamato anche lui il collega turco per mostrare preoccupazione riguardo la violazione dell’embargo, in linea Macron insomma, mentre alla Farnesina era ospite il ministro degli esteri cipriota, Nikos Christodoulides.

Il gioco di equilibri è molto delicato. L’Italia è parte del sistema EastMed in sovrapposizione politica e commerciale (Eni ha ruolo e interessi nei giacimenti), ma non vuol complicarsi le cose con la Turchia (che tra le varie cose controlla anche il traffico di migranti sulla rotta balcanica per conto dell’Ue). D’altra parte l’Italia ha ottime relazioni con gli Emirati Arabi, ma anche col Qatar, come dimostra il recente tour istituzionale molto approfondito e strutturato. E Doha è alleata turca nel quadro di scontro con l’Islam politico mosso dalle monarchie del Golfo: partita che si gioca anche sul campo libico.

“Turchia ed Emirati si confermano le due potenze più coinvolte nel conflitto libico. Entrambe hanno puntato tutto su un solo cavallo e quindi, in caso di fallimento, hanno tutto da perdere”, scrive Eugenio Dacrema, nuovo co-head del Mena Center dell’Ispi, in un commento al Daily Focus con cui il think tank fotografa la situazione libica. “In Nord Africa, gli Emirati Arabi Uniti perseguono una politica interventista e pro-attiva mirata a creare situazioni di gioco alternative. La strategia è quella del filo di perle, che parte dal Golfo, passa per i porti del Corno d’Africa e approda nel Mediterraneo. E che vede nella Libia una ‘perla’ pregiata e insostituibile”. Conferma ulteriore del quadro già ricostruito da Bianco.

Per tornare ancora su quel che ha detto Di Maio in commissione, c’è il ruolo degli Stati Uniti. Il ministro ha chiesto che Washington aumenti il proprio coinvolgimento sulla Libia, e sembra riprendere quanto scritto da Daniele Raineri sul Foglio, che sostiene che a Donald Trump basterebbe una telefonata per fermare la guerra. È possibile, sia chiaro, ma attualmente, se non evitare sconvolgimenti incontrollabili, gli Usa non sembrano particolarmente interessati al dossier. Trump ha stabilito un contatto diretto col presidente turco, Recep Tayyp Erdogan, mentre sull’altro campo Egitto ed Emirati si sono mostrati utili vicari in Libia e fedeli sponsor su un fascicolo delicatissimo come il piano israelo-palestinese.

Per Trump essere disingaggiati vale più che essere parte. Al momento: però è chiaro, la forza politica e dissuasiva americana è enorme, come intende giustamente Di Maio, così come l’imprevedibilità del Potus.

 

 

Sulla Libia Di Maio gioca la carta della diplomazia, ma è ancora possibile?

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