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Ieri la Turchia ha iniziato a bombardare alcune aree al confine siriano, com’era prevedibile visto che Donald Trump ha deciso (a quanto pare senza avvisare gli alleati internazionali, i congressisti e molti dei funzionari al Pentagono e Foggy Bottom) di farsi da parte, ritirando un contingente presente nella zona e dunque avallando il piano di Ankara per togliere il controllo di quei territori dai progetti statuali dei curdi siriani – le unità che insieme agli Usa hanno sconfitto la dimensione statuale del Califfato e che si trovano su quelle aree di sovranità siriana per presenza ancestrale su cui c’è stato un avallo amministrativo americano (come una sorta di ricompensa per il lavoro fatto con l’Is).

“La decisione del Presidente di abbandonare i nostri alleati curdi di fronte a un assalto da parte della Turchia è un tradimento. Dice che l’America è un alleato inaffidabile; facilita la rinascita dell’Isis; e presagisce un altro disastro umanitario”, scrive su Twitter il senatore repubblicano Mitt Romney, il primo tra i congressisti a criticare apertamente (già ieri) la scelta di Trump. Sia i leader del Senato, il repubblicano Mitch McConnell, che quella della Camera, la democratica Nancy Pelosi, hanno chiesto alla Casa Bianca di ripensarci.

E Trump, in uno degli svariati tweet di questi giorni, è sembrato addrizzare il tiro, ha minacciato punizioni esemplari alla Turchia se avesse attaccato i curdi, ma l’effetto deterrenza non ha funzionato. E probabilmente perché, secondo quanto saputo dalla Nbc (che ha anche intervistato il capo delle milizie curdo-arabe che controlla il nord siriano), nell’accordo raggiunto tra l’americano e il turco Recep Tayyp Erdogan c’è spazio di tolleranza per “una moderata incursione”, quella che permetterebbe ai turchi di liberare quella che definiscono una “safe zone”, una fascia di una trentina di chilometri attorno al confine che vorrebbero controllare in modo unilaterale (l’idea, oltre che distanziarsi dai curdi, ritenuti dei terroristi nemici, è di usare quel corridoio per ridistribuire alcuni dei profughi siriani: ci sono già i progetti definitivi di un piano di investimenti da 20 miliardi di dollari).

Il senatore Lindsey Graham, repubblicano con un rapporto d’amore e odio con l’attuale Casa Bianca, dice che la decisione di Trump è stata “impulsive”. Trump ci ha abituato: il suo modo di trattare i dossier internazionali col passo affaristico con cui ha costruito il suo business è ormai noto. Batte i pugni, si alza dai tavoli negoziali con le controparti, prende anche decisioni impulsive, ma forse quella che riguarda il futuro della fascia settentrionale siriana non è una di queste.

Sappiamo da quasi un anno che il presidente vuol tenere fede agli impegni presi con gli elettori (già nel 2016) a proposito di certe presenze militari, in particolare in Siria e Afghanistan. Era il 19 dicembre del 2018 quando annunciò pubblicamente che il contingente americano impegnato sul suolo siriano sarebbe rientrato a casa nel giro di un mese. Un annuncio mirato sull’interesse elettorale, come detto, che aveva lasciato contenti i suoi supporter (“non mi risulta che Raqqa sia in Illinois, e allora cosa dovremmo fare laggiù”, diceva uno di loro ai tempi, durante un raduno) e sbigottito analisti e apparati tanto quanto il semaforo verde al piano con cui Erdogan dovrebbe prendere il controllo di quella fetta di Siria ora in mano ai curdi.

Se se ne fa una questione idealista, Trump è il presidente che ha tradito i curdi siriani vendendoli a Erdogan dopo che la sconfitta dell’Is (sotto la dimensione statuale) è stata raggiunta anche grazie a loro. Undicimila morti tra i miliziani delle Ypg, che hanno combattuto il Califfato fianco a fianco con quella manciata di forze speciali americane che adesso Trump intende far da parte per lasciare via libera a Erdogan — uno che considera quei curdi terroristi alla stregua dei baghdadisti e non nasconde visioni settarie contro quella minoranza problematica che occupa anche il sud della Turchia, cugini di sangue con quegli altri in Siria appena oltre il confine.

Ma la politica è pragmatismo, realismo. O almeno: anche. La decisione di Trump sotto questa lente si posiziona su un doppio binario di interesse. Il primo come detto ha valore elettorale, chiaramente spendibile nella corsa per la rielezione del 2020. “Sono stato eletto per mettere fine a queste guerre interminabili”, ha commentato il presidente Usa, anche se il Pentagono ridimensiona il ritiro: non escono tutti i soldati dalla Siria, si spostano più a sud e a est, si smobilitano solo un centinaio di elementi (quelli che appartenevano al sistema di pattugliamento congiunto con i turchi creato quest’estate, quando ai curdi fu chiesto di smontare le postazioni lungo il confine).

Il secondo è quello di interesse internazionale: nel comunicato con cui annuncia la scelta di spostare i suoi soldati da quel territorio, Trump attacca l’Europa. Citati esplicitamente Francia e Germania, a cui la Washington trumpiana aveva chiesto aiuto per gestire la situazione, resa complicatissima dalla presenza, sotto custodia curda, di migliaia di combattenti del Califfato fatti prigionieri durante le campagne di riconquista di quei territori occupati. Molti di loro sono cittadini europei, foreign fighters: Trump dice di non poterli far più pesare sul conto dei contribuenti americani e per questo ne affida la custodia alla Turchia. In realtà non c’è nessun piano noto e strutturato ed è probabile che Ankara bussi a Bruxelles per trattare la gestione di questi terroristi, cittadini Ue che l’Europa vuole tenere più lontano possibile da propri confini perché teme il terrorismo di ritorno; non sa come inquadrarli giuridicamente; sperava nel mantenimento dello status quo.

Barack Obama in una celebre intervista all’Atlantic a fine mandato chiamò gli europei “free riders”, scrocconi. Il tema era proprio la scarsa efficienza in Siria e Iraq, ma anche in Libia, Egitto, Tunisia e non solo, quando ancora la lotta allo Stato islamico era nel pieno. Ora Trump presenta il conto, dopo aver chiesto per mesi agli alleati europei di mandare dei contingenti con cui sostituire i suoi soldati. L’Ue potrebbe scegliere di accordarsi con la Turchia su quel che farne dei prigionieri, e d’altronde non sarebbe la prima volta: c’è già stato un ben retribuito accordo realista con cui l’Europa ha usato i turchi per proteggersi lungo la rotta dell’immigrazione orientale. Ma il messaggio di Trump è disinteressato rispetto a questo: il presidente Usa intende inviare un warning operativo sulle relazioni internazionali.

Qui questo secondo binario si sdoppia, perché col disimpegno Usa effettivo si apre il terreno e se l’Europa deve far qualcosa, c’è un altro attore che è chiamato alla responsabilità: la Russia. Mosca ha il compito di farsi garante della Turchia, già avvicinata dal piano trasversale di Vladimir Putin, che ha usato proprio il conflitto siriano come elemento per disarticolare l’alleanza intra-Nato tra Washington e Ankara. Quando questi ultimi erano insoddisfatti per come gli Usa stavano gestendo la Siria, ossia detestavano l’alleanza con i curdi, i russi hanno spalancato la porta e incluso Ankara nel sistema Astana, il processo diplomatico creato da Mosca come alternativa personale a quello Onu.

Era un’apertura con interessi, chiaramente, con cui Putin cercava di includere Erdogan nella sua sfera di influenza pensando a diversi dossier, dai Balcani al gas mediterraneo, passando per il Medio Oriente. Ora Trump invita Mosca a venire allo scoperto, a misurare la sua capacità di potenza politica (in grado di evitare che i turchi attacchino i curdi, e viceversa), ma la mette anche sotto un test di affidabilità. I teorici dietro al presidente americano spingono per un mastodontico avvicinamento alla Russia in chiave anti-cinese, ma tra gli apparati non ci si fida. Resta il peso ideologico della Guerra Fredda, l’Orso è ancora un avversario. Ora Mosca è messa alla prova: saprà garantire un equilibrio in Siria? Va da sé che siamo ancora nel campo del realismo estremo, quello che fa passare sotto impunità il massacro di siriani compiuto dal regime con l’appoggio pratico di Mosca. “I due Paesi meno contenti per queste decisione sono Russia e Cina, che godono a vederci impantanati in certe situazioni”, ha aggiunto Trump nel suo commento riguardo al ritiro siriano.

Sulla decisione trumpiana poi c’è un peso, un terzo binario che riguarda una speculazione maliziosa che estremizza il realismo politico e passa allo scontro interno alle istituzioni statunitensi, e deriva da una lettura delle circostanze. Trump ha rotto con l’intelligence, lo smacco di costruire una contro-indagine per smentire i servizi sul Russiagate è stato il passo conclusivo di un rapporto da sempre burrascoso culminato con il whistleblower complaint che ha aperto la procedura di impeachment ai suoi danni. Sulla Siria, il ritiro è un dispetto alla Cia, che s’è da sempre impegnata attivamente sia sul piano dell’antiterrorismo sia in quello a sostegno dei ribelli, occupando un fronte nettamente opposto da quello dei russi. La campagna elettorale per Usa 2020 sarà durissima, e sarà qualcosa che coinvolgerà il mondo intero.

La scelta di Trump sulla Siria. Obiettivo? Usa2020

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