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La mossa sulla Siria, il ritiro annunciato, il “tradimento ai curdi”, l’avanzata turca, i rischi per la sicurezza regionale e per la lotta al terrorismo, ma anche la situazione che sta vivendo Donald Trump, le ruggini con il Congresso, il rapporto con gli apparati interni al Paese, fino all’impeachment. Il direttore dell’Ispi, Paolo Magri, delinea con Formiche.net uno scenario che si fa via via complesso: temi caldi, tutti da leggere anche in proiezione verso Usa2020.

Che cosa succede attorno a Trump? Dalle pressioni democratiche per l’impeachment all’equilibrio precario con il partito, alle critiche suscitate da decisioni come quella sulla Siria, che si porta dietro anche lo scontento di diversi apparati, da difesa a intelligence, fino al Congresso: sembra affrontare uno dei periodi peggiori della sua presidenza, e tutto in una fase delicatissima, ma… 

È cominciato l’anno elettorale. Non lo definirei però il periodo peggiore: ricordiamoci che Trump “vive” di queste critiche e di queste polarizzazioni e cercherà sicuramente il modo di capitalizzare. L’avvio della procedura di impeachment rafforza la sua tesi della “caccia alle streghe”; per quanto riguarda le critiche sulla Siria, anch’esse non sono inedite: è da tre anni che Pentagono e intelligence criticano in maniera neanche troppo velata le mosse in politica estera del presidente. Ma Trump non sembra tenere troppo in considerazione le critiche dell’”apparato”: ogni mossa, ogni dichiarazione, ogni tweet è rivolto al suo pubblico interno, al suo bacino elettorale. E in questo momento non vuole altro che poter dire: ho portato a casa i soldati americani dalle inutili guerre mediorientali.

Sulla Siria nello specifico, allora: che piano tattico e quale interesse strategico hanno gli Stati Uniti nel quadrante? 

La Siria è il perfetto esempio di questa distanza tra Trump e gli apparati. Per il presidente, l’interesse degli Stati Uniti è il disimpegno totale; per i suoi funzionari è invece il mantenimento di una presenza. Abbiamo letto proprio in questi giorni sui giornali statunitensi accurate ricostruzioni di come il Pentagono abbia provato negli ultimi mesi a diluire la richiesta del presidente di ritirare totalmente le truppe dalla Siria. Questa divergenza di vedute e di azioni non aiuta né sul piano tattico né su quello strategico: il risultato semmai è il caos, reale e percepito.

Cosa stanno facendo con la Turchia, e con la Russia, che sul campo siriano gioca una partita centrale?

Quello che Trump sta cercando di fare con la Turchia e con la Russia è sostanzialmente un passaggio di consegne, un appaltare a qualcun altro la gestione sempre più onerosa delle difficili partite mediorientali. Se da una parte tutto ciò è comprensibile – gli Usa sono reduci da due interventi, Iraq e Afghanistan, onerosi e molto discutibili – dall’altra si rischia una nuova, profonda, destabilizzazione. Se effettivamente lo Stato islamico dovesse riuscire a riorganizzarsi – come è possibile che avvenga – nel caos siriano e iracheno di queste settimane, il conto non lo pagherebbe solo il Medio Oriente, né solo l’Europa, ma anche gli stessi Stati Uniti.

Nella dichiarazione con cui ha annunciato l’idea di spostare alcune forze speciali dal confine siriano (e dunque far spazio alla Turchia) Trump ha citato esplicitamente Francia, Germania e altri Paesi europei. Sappiamo che Erdogan lungo il confine ha un piano di ingegneria etnica, con cui riposizionare centinaia di migliaia di profughi siriani (oltre che uno per la sicurezza, distanziandosi dai curdi); quei profughi sono gli stessi “ospitati” per accordo con l’Ue. Cosa c’entra l’Europa in questa partita? 

A questo stadio c’è ormai poco che l’Europa possa fare. È stata sicuramente protagonista dello sforzo umanitario in Siria – è il maggior donor internazionale – ma al di là di questo non ha mai avuto un forte ruolo politico, né tantomeno militare. Erdogan inoltre ha delle leve nei confronti dei Paesi europei, i 3 milioni di profughi siriani che per l’appunto minaccia ciclicamente di lasciar passare verso l’Europa, e sappiamo quanto il dossier immigrazione abbia messo in crisi l’Ue in questi anni.

Come dovrebbero muoversi i Paesi europei (che intanto hanno avanzato critiche ufficiali contro Ankara)?

I Paesi europei sono stati poco incisivi anche su un altro aspetto, quello rinfacciato da Trump, del rimpatrio dei propri foreign fighters. Sono circa 2mila i cittadini europei – su 11mila prigioneri totali – attualmente detenuti nei campi siriani sorvegliati dall’Ypg (le milizie curdo-siriane, ndr). Se effettivamente i prigionieri dovessero fuggire e riorganizzarsi, la colpa sarebbe dell’intera comunità internazionale che li ha lasciati nel limbo. Tra le iniziative concrete che i Paesi europei potrebbero mettere in atto per arginare quantomeno la situazione c’è quindi proprio questa: cominciare a rimpatriare e assicurare alla giustizia i propri combattenti.

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