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Con una nota diffusa dal suo ufficio stampa, il signore della guerra della Cirenaica, Khalifa Haftar, ha riconosciuto “in fin dei conti la necessità di un dialogo e di sedersi intorno allo stesso tavolo per avviare il processo politico”. È la prima volta che l’uomo forte dell’Est libico diffonde una posizione del genere da quando il 4 aprile ha lanciato una campagna militare per conquistare Tripoli e rovesciare il governo onusiano della capitale. Mossa da cui poi intestarsi il paese come nuovo rais.

“È necessario un dialogo nazionale generale che preservi l’unità nazionale del territorio libico”, ha detto; ed è interessante sottolineare come dietro a questa posizione – sulla cui limpidezza nessuno può scommettere, e saranno solo le evoluzioni successive a poterla confermare – ci siano un giro di circostanze e situazioni molto importanti.

Primo, la dichiarazione di Haftar – comunque corredata dai soliti claim propagandistici sulla necessità di liberare il paese dal terrorismo alla base del suo sforzo militare – arriva nel giorno in cui all’Onu sono riunite attorno a un tavolo diretto da Italia e Francia tutte le potenze internazionali a parlare proprio di Libia, nell’ambito dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. È un contesto generale che non va dimenticato, perché potrebbe essere il motivo formale dietro a questa apparente posizione dialogante dell’autoproclamato Feldmaresciallo.

Secondo, Haftar sta soffrendo sul campo. La sua campagna è in stallo, ha perso il polo logistico di Gharyan (da cui gestiva operazioni e rifornimenti) e sta rischiando di perdere anche Tarhouna più a nord-est. I suoi miliziani sono demotivati: si sono trovati invischiati in una guerra civile di posizione mentre gli era stata promessa una cavalcata trionfale su Tripoli. Con loro anche gli sponsor esterni del Feldmaresciallo iniziano a essere nervosi.

E qui arriva il terzo punto: è possibile che Haftar sia stato spinto su certe posizioni da chi come Egitto ed Emirati Arabi, questi soprattutto, lo ha sostenuto sia economicamente che militarmente, ma adesso vede la situazione con tutte le negatività emerse. Sia sul fronte delle battaglie che su quello della potabilità politica futura, Haftar sembra essere un cavallo zoppo e non più cavalcabile troppo a lungo. E dunque: ci sono riassetti in corso?

L’incontro all’Onu è stato preceduto da un posizionante politico diplomatico che ha praticamente interessato tutte le potenze in campo, dagli Usa alla Russia, poi gli europei (Italia, Germania, Francia, Regno Unito), ma anche la Turchia e infine la Cina. Una quadro contro cui difficilmente si può andare. Gli Emirati Arabi hanno firmato una dichiarazione congiunta con cui chiedere che il petrolio libico non venga venduto dalla Cirenaica, come vorrebbe Haftar, perché altrimenti si rischia l’avvio della strada di spartizione libica (che è un argomento che invece non dispiace all’Egitto, che con la Cirenaica ha rapporti atavici).

Abu Dhabi è in questo momento impegnata in un ripensamento generale delle politiche di gestione della regione che va dal Medio Oriente al Nord Africa, dove è più attiva diplomaticamente. Non è un caso che gli emiratini abbiano avviato una serie di relazioni con l’Iran per verificare la possibilità di creare una piattaforma di sicurezza condivisa dall’interno della regione mentre il quadrante mediorientale è in crisi. Lo stesso potrebbe succedere sulla Libia, spingendo Haftar, da sempre sostenuto, a una resa politica con garanzie su una via d’uscita dignitosa e l’avvio di negoziati intra-libici (attualmente complicatissimi perché gli anti-haftariani sentono la vittoria vicina e non voglio condonare niente dell’aggressione).

È una coincidenza che la dichiarazione del signore miliziano dell’Est sia uscita per prima su Al Arabiya di Dubai? È chiaro anche qui che la continuità di questo genere di movimenti pragmatici  (non sono certo un moto motivazionale) è da mettere sotto attenzione quando sarà sganciata dalle dinamiche innescate dall’UNGA. All’ora lì si schiarirà l’opacità e si tornerà a capire i reali interessi.

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