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“Non sono venuto a perorare cause particolari, ma a consolidare una comune visione del mondo”. Così ha detto a Washigton Matteo Salvini a commento del suo viaggio negli Stati Uniti. E forse non è un caso che il termine “visione” compaia anche nel titolo del bel libro di Germano Dottori, appena pubblicato da Salerno Editrice, che il leader della Lega portava sotto braccio a beneficio dei fotografi all’imbarco a Fiumicino: “La visione di Trump. Obiettive e strategie della nuova America” (con postfazione fra l’altro dal sottosegretario Giancarlo Giorgetti).

LA RICERCA DI UN’IDENTITÀ

È  evidente, infatti, che in questo momento ci sia da parte di Salvini lo sforzo di creare un’identità definita per sé e il suo partito. E questo sforzo a me sembra la vera marcia in più che egli ha oggi rispetto agli alleati di governo Cinque Stelle. È un errore infatti pensare che, in tempi di postpolitica, si possa fare del tutto a meno di una “visione” o di una “identità”. Certo, l’identità non deve essere né rigida né statica come quella dei partiti di un tempo: deve cioè saper mediare con la realtà e rimodularsi con le sue trasformazioni. A un certo punto però bisogna pure averla. Non si può infatti costruire un consenso duraturo senza far seguire, al naturale contrasto alle vecchie politiche, il disegno e la realizzazione di una politica non fatta di semplici issues , cioè una politica a la carte, ma di una più ampia visione e connessione fra i principali temi all’ordine del giorno. In particolare, il tema del controllo e della gestione dell’immigrazione, per quanto fortemente sentito dagli elettori, non poteva  essere né il centro né il fine ultimo di una politica ambiziosa.

L’ANCORAGGIO A DONALD TRUMP

In questa prospettiva, l’ancoraggio a Donald Trump era diventato, in un certo senso, naturale: non solo per l’indubbia vicinanza della forma mentis e del carattere fra i due leader, ma anche perché un contrasto forte alle attuali politiche dell’Unione europea non può non  avere, almeno idealmente, una sponda forte oltreoceano. Non essendo Trump né un “incidente” della storia né un improvvisatore, come ci spiega dettagliatamente Dottori nel suo libro, avvicinarsi a Trump da parte di quello che è l’azionista di maggioranza del governo ha un però doppio risvolto: positivo per il consolidamento della Lega, e più in generale per chi come me ha a cuore certi valori liberali; potenzialmente negativo per il futuro del governo. Dal primo punto di vista, bisogna considerare che Trump ha dei punti fermi e forti che continuano ad essere per noi liberali imprescindibili: l’atlantismo, la difesa dei classici valori occidentali, la lotta ai regimi dittatoriali e teocratici, la vicinanza ad Israele, la lotta senza quartiere al “politicamente corretto” e alla destrutturazione della cultura classica che avviene quotidianamente nei campus e nelle centrali culturali americane, la lotta alle tasse, la difesa del ceto medio e della piccola proprietà.

IL FRONTE EUROPEISTA

Aver precisato trumpianamente la sua identità, comporta però ora per Salvini atti concreti di politica estera e politica economica che potrebbero causare frizioni letali per il governo. Intanto, i due settori sono oggi presidiati da “tecnici” vicini al vecchio europeismo (da Enzo Moavero fino forse allo stesso premier Giuseppe Conte) e dai pentastellati (i quali sia per un certo antiamericanismo di maniera sia per le politiche “filocinesi” marciano di fatto in una direzione opposta). In seconda istanza, sono temi, soprattutto la politica estera, che non tollerano quelle tergiversazioni e contraddizioni a cui finora il governo è stato necessitato. Probabilmente Salvini non vuole la crisi, anche perché le mosse successive del Quirinale non sono scontate. In politica però a volte la realtà presenta il conto e i fatti sono più forti delle intenzioni dei protagonisti.

Ottimo per la Lega, letale per il governo. Salvini negli Usa secondo Ocone

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