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Nell’attuale dibattito sul Medio Oriente si è ormai affermata l’espressione Guerra fredda per definire l’antagonismo tra Iran e Arabia Saudita che divide in due la regione. Ciascuno di questi due Paesi sarebbe a capo di un fronte e potrebbe vantare alleati e strumenti per l’avanzamento della propria agenda. Come in Guerra fredda, poi, i due poli non si affronterebbero direttamente ma combatterebbero “per procura” su altri scenari regionali. Se questa analogia è valida fino a un certo punto – il Medio Oriente è uno scenario molto più frammentato e complesso del vecchio mondo bipolare – c’è però un elemento valido: se il Medio Oriente fosse il mondo bipolare della Guerra fredda, l’Iran sarebbe l’Unione Sovietica del tempo. Non solo per l’assonanza tra le espressioni “impero del male” – come era definita l’Urss all’epoca – e “asse del male” di bushiana memoria, di cui farebbe parte Teheran, ma anche e soprattutto per l’appiattimento delle dinamiche regionali su una logica a somma zero, in base alla quale l’Iran sarebbe responsabile di ogni atto di destabilizzazione, la fonte ultima di ogni problema e, di conseguenza, il nemico da neutralizzare per ripristinare l’ordine.

Negli ultimi vent’anni la regione mediorientale ha di fatto subìto una destabilizzazione, tanto per causa di interventi esterni come quello in Iraq del 2003, quanto per fattori endogeni, come le rivolte arabe del 2011 in Tunisia, Egitto, Siria, Libia, Bahrein e il loro successivo sfociare in guerre civili (Siria e Libia), o in restaurazioni (Egitto e Bahrein). In questo contesto di ridefinizione degli assetti sistemici della regione, l’Iran ha giocato un ruolo da protagonista, ma non da deus ex machina. È innegabile che l’influenza di Teheran nella regione abbia conosciuto un notevole aumento nel periodo post-2003.

Proprio la destituzione di Saddam e il passaggio dell’Iraq – Paese fulcro degli equilibri regionali – dal ruolo di nemico a quello di alleato ha contribuito ad accrescere il ruolo dell’Iran. Di riflesso, ciò ha contribuito ad ampliare nei suoi avversari e nel loro alleato statunitense la percezione di Teheran come di una potenza espansionista, con mire egemoniche sulla regione. Questa percezione si è poi rafforzata a seguito degli interventi in altri due teatri di guerra regionali: quello militare in Siria a favore di Bashar al-Assad a partire dal 2011, e il sostegno accordato agli Houthi in Yemen, allo scopo di acuire le difficoltà riscontrate dalla coalizione a guida saudita-emiratina intervenuta nel Paese nel 2015.

Ma, ancora una volta, a contare sono le percezioni. Quello che per Usa, Arabia Saudita e Israele è espansionismo, per l’Iran è difesa avanzata, giustificata dalla percezione di una profonda insicurezza: la forma mentis dell’attuale classe politica iraniana è stata plasmata dall’esperienza della guerra Iran-Iraq del 1980-1988, quando tutti i Paesi della regione (a eccezione della Siria) si schierarono dalla parte di Saddam Hussein contro Teheran, e questo senso di accerchiamento perdura tutt’oggi.

Il sostegno a movimenti come Hamas o Islamic jihad in Palestina, l’alleanza con Hezbollah in Libano, il dispiegamento delle brigate al Qods dei pasdaran nei teatri siriano e iracheno servono a Teheran proprio per questo: a rompere l’isolamento ed esercitare la deterrenza sui propri avversari regionali, in un contesto profondamente asimmetrico. Una logica simile è quella che sottende lo sviluppo del programma missilistico e, fino al 2015, nucleare. In un contesto di limitato accesso ai sistemi di arma convenzionali per via dell’embargo Onu in vigore fino al 2020, Teheran ha privilegiato lo sviluppo autonomo di sistemi di arma non convenzionali per l’esercizio della deterrenza.

Come evitare che percezioni contrastanti portino a errori di valutazione o a veri e propri incidenti che, in una situazione tesa come quella attuale, potrebbero deflagrare in conflitto aperto? La soluzione risiederebbe nella creazione di un forum di dialogo regionale per la risoluzione delle controversie e la gestione delle crisi. Un gioco a somma positiva, esattamente l’opposto del gioco a somma zero odierno, e della logica del contenimento che come in Guerra fredda porta gli Usa a indossare il paraocchi del nemico unico.

Un paraocchi che rischia di portare a decisioni miopi, come quella di abbandonare l’accordo sul nucleare e di rafforzare la partnership con Arabia Saudita e Israele per mettere all’angolo Teheran. Così facendo, aumenta in quest’ultima la percezione di insicurezza, con il risultato di un ulteriore inasprimento delle posizioni e di una ulteriore polarizzazione della situazione. Un circolo vizioso di difficile interruzione e dalle conseguenze potenzialmente destabilizzanti.

Se anche il Medio Oriente ha la sua Guerra fredda. L'analisi di Perteghella (Ispi)

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