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Nuova tegola sui già pericolanti rapporti fra Washington e Pechino. Un viaggio americano della presidente di Taiwan Tsai Ing-wen in programma per luglio ha mandato su tutte le furie il ministero degli Esteri cinese. Questo lunedì la portavoce Geng Shuang ha ammonito gli Stati Uniti chiedendo di negare ospitalità alla leader taiwanese. Come è noto la Cina considera Taipei come una mera estensione del suo territorio. Una provincia ribelle cui non è riconosciuta alcuna indipendenza legale. Anche gli Stati Uniti hanno formalmente interrotto i rapporti diplomatici con il governo di Taiwan nel 1979, quando l’amministrazione Nixon riconobbe ufficialmente il governo comunista cinese inaugurando le relazioni bilaterali. Il governo americano resta tuttavia un convinto sostenitore di Tsai e supporta Taiwan sia attraverso canali diplomatici non ufficiali sia tramite il commercio di armi e tecnologie militari.

LA VISITA DI TSAI 

La visita di Tsai, in programma dall’11 al 22 luglio, avrà luogo in quattro piccoli Paesi caraibici: Saint Vincent e Grenadine, St Lucia, St Kitts e Nevis, Haiti. Il passaggio negli Stati Uniti non occuperà più di due notti e dovrebbe toccare due città, New York e Denver. Non c’è un’agenda ufficiale degli incontri, né l’amministrazione Trump ha commentato il monito cinese. Tanto è bastato però per aprire un nuovo caso in un delicatissimo momento per i negoziati commerciali fra Cina e Stati Uniti. “Nulla di nuovo, questi Paesi dei Caraibi sono fra i diciassette Stati che riconoscono ufficialmente Taiwan, e ogni volta che un politico di Taipei va a fargli visita passando per il suolo americano il governo cinese protesta – spiega a Formiche.net Brad Glosserman, vicedirettore del Tama University Center di Tokyo e senior advisor del Pacific Forum – la decisione del governo americano di consentire a Tsai il transito manda un messaggio a Pechino: anche in un momento così decisivo per i negoziati gli Stati Uniti trattano da una posizione di forza”.

IL SOGNO DI RINASCITA NAZIONALE CINESE

La questione taiwanese rimane una ferita aperta per Pechino. Da quando ha dichiarato l’indipendenza nel 1946 l’isola di 23 milioni di abitanti non è mai uscita dalle mire del governo comunista che ha sempre pubblicamente auspicato un ritorno di Taipei sotto l’ombrello politico e amministrativo della capitale. Assunta la presidenza nel 2013 Xi Jinping ha fatto del dossier Pacifico un nodo centrale della sua politica del “sogno di rinascita nazionale cinese” per riscattare “il secolo dell’umiliazione” e i soprusi dei Paesi occidentali inflitti alla Cina fra XIX e XX secolo nel Mar cinese meridionale. La morsa del governo centrale su Taiwan e le interferenze nel sistema politico dell’isola si sono fatte più stringenti negli ultimi sei anni, così come i moniti a chiunque voglia intromettervisi.

In una conferenza di inizio giugno il ministro della Difesa cinese Wei Fenghe lo ha messo in chiaro: “Se qualcuno vorrà dividere Taiwan dalla Cina, l’esercito cinese non avrà altra scelta che combattere a tutti i costi per l’unità nazionale”. Secondo fonti del Dipartimento della Difesa americano citate dalla Cnn il governo cinese avrebbe pronto un piano di invasione dell’isola intitolato “Joint Island Attack Campaign”. Un’operazione dall’esito apparentemente scontato: l’Esercito di Liberazione popolare cinese consta di più di un milione di truppe di terra e 5800 carri armati a fronte di 140mila truppe e 800 carri taiwanesi. La morfologia dell’isola e il supporto militare degli Stati Uniti a detta degli esperti rendono invece l’eventuale invasione un’operazione costosissima per il governo cinese.

Sebbene non siano stati fatti consistenti passi avanti sul piano diplomatico, il presidente Trump ha stretto i legami con Taipei più di quanto non abbiano fatto i predecessori a Pennsylvania Avenue. Tutto è iniziato da un equivoco che ha rischiato di innescare una grave crisi diplomatica. Una chiamata ufficiale della presidente Tsai all’indomani delle elezioni presidenziali del novembre 2016 per congratularsi della vittoria. “Fu un vecchio repubblicano del Kansas, Bob Dole, a suggerirgli di prendere quella chiamata – dice Glosserman – un gesto di grave ignoranza diplomatica”. Superato l’incidente, la linea pro-Taiwan è sopravvissuta all’interno dell’amministrazione. “Sia il vicesegretario alla Difesa per gli affari Indo-pacifici Randall Schriver sia il vicesegretario di Stato per l’Asia orientale David Stillwell sono favorevoli a un’apertura a Taiwan”, dice l’esperto.

Un’eventuale incontro di Tsai con esponenti dell’amministrazione durante il suo passaggio americano sarebbe accolto con favore anche a Capitol Hill. Fin dal 1979 il Congresso si è confermato a livello bipartisan custode delle buone relazioni (informali) con Taiwan. Non è però da escludere che la visita si trasformi in un incidente con ripercussioni sui negoziati commerciali. Il tempismo non è dei migliori: a detta dello stesso giornale del Partito comunista cinese, il People’s Daily, il faccia a faccia fra Trump e Xi al G20 di Osaka “ha inviato un segnale positivo ai due Paesi e al mondo”. “Il presidente difetta di una strategia di ampio respiro – sentenzia l’esperto del Pacific Forum – vede le relazioni internazionali solo attraverso la lente dei dollari e delle relazioni personali, ma questi dettagli possono fare la differenza”.

Fra Trump e Xi c'è Taiwan. Ecco perché i negoziati scricchiolano

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