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Un passo avanti e due indietro. Non bastano proclami e buone intenzioni a far decollare il centrodestra. I tre ex alleati sono arenati sui ghiacciai della legge elettorale e non riescono a venirne fuori. A lanciare la battaglia per un “maggioritario all’inglese” era stato il senatore della vecchia guardia leghista Roberto Calderoli, già padre del “Porcellum”. Referendum, abolizione della quota proporzionale del Rosatellum, ritorno al voto l’iter indicato e fatto proprio dal leader Matteo Salvini, oggi convinto di un vecchio andante di Matteo Renzi, “gli italiani devono sapere chi governa il giorno del voto”.

Una battaglia che fin da subito ha visto allineata Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, decisa anzi ad alzare la posta chiedendo una modifica della Costituzione per introdurre l’elezione diretta del Presidente della Repubblica e l’abolizione dei senatori a vita. Fredde, anzi glaciali le prime reazioni di Forza Italia all’idea di un ritorno al maggioritario. “Sono io il padre del maggioritario in Italia” aveva inizialmente chiosato Silvio Berlusconi. Con i giorni i dubbi si sono fatti strada fra i colonnelli azzurri, consapevoli dell’effetto boomerang che l’abolizione del proporzionale avrebbe su un partito che viaggia ben al di sotto del 10%.

Oggi la doccia fredda finale, che conferma i sospetti di leghisti e meloniani. Costituzione alla mano, servono cinque consigli regionali per avviare l’iter di un referendum costituzionale. Il centrodestra ne ha di più, in teoria. In pratica i conti sono da rivedere: Forza Italia non darà la sua benedizione al referendum leghista e chiederà ai suoi consiglieri regionali di astenersi. La bomba sull’alleanza è arrivata direttamente da Arcore. Indicazioni dall’alto, dunque. Confermate da uno dei maggiorenti azzurri più vicini al Cavaliere, Sestino Giacomoni, responsabile di tutti i coordinatori regionali. A loro ha inviato un messaggio per certificare “i dubbi” espressi a Viterbo durante la kermesse radunata da Antonio Tajani. Nulla in contrario al maggioritario, è la linea dettata dai vertici, ma il referendum “da un punto di vista tecnico presenta molti punti critici, per questo non possiamo votarlo”.

Una retromarcia che era nell’aria e pure sarà digerita a fatica dal Carroccio. Salvini ha fatto del maggioritario la nuova linea Maginot da cui aggredire il governo giallorosso. E infatti non si sono fatte attendere le prime reazioni al vetriolo. Soprattutto al Nord, dove, scrive Carmelo Lopapa su Repubblica, Giovanni Toti e Luca Zaia, governatori di Liguria e Veneto pronti a un secondo giro, hanno fatto trapelare che il sì al referendum costituirà una discriminante per la ricandidatura dei consiglieri regionali forzisti nella stessa lista. Intanto in Lombardia il consiglio regionale ha dato avvio all’esame delle questioni di pregiudizialità sulla modifica della legge elettorale. Così anche la regione Piemonte presieduta dall’azzurro Alberto Cirio, che dunque detta una linea opposta ad Arcore.

Lo stop di Forza Italia rimescola le carte proprio mentre la vecchia coalizione sembrava dare qualche segno di vita. Al Senato i leghisti hanno dato il via al “Vietnam” delle commissioni promesso da Calderoli. Un primo incasso alla commissione Affari costituzionali, dove è saltato il numero legale. Oggi alla Camera è previsto un incontro prima della conferenza capigruppo fra Maria Stella Gelmini (FI), Riccardo Molinari (Lega) e Francesco Lollobrigida (FdI). È la risposta positiva a un appello lanciato dall’azzurra per coordinare l’opposizione al governo e “difendere i risparmi degli italiani”.

Schiarite ancora non sufficienti a diradare le nubi addensatesi dopo il no forzista al referendum. Non è un caso che il tanto atteso vertice a tre sia slittato di un’altra settimana. “Mai convocato” si difende Salvini. Ma la fotografia ufficiale del centrodestra è ferma alla tre giorni meloniana ad Atreju: sovranista, e monca.

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