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Greta Thunberg e milioni di giovani chiedono ai governanti e ai politici di assumersi la responsabilità di decisioni che richiedono visioni di lungo periodo, in molti casi difficilmente compatibili con quelle legate alle scadenze elettorali. Un bel problema, perché la democrazia rappresentativa si regge sul consenso e spesso il consenso “fa a pugni” con le visioni di lungo periodo.

I governanti e i politici riuniti a New York hanno davanti una settimana difficile, perché i dati sul cambiamento climatico sono crudi e perfino drammatici: dopo 30 anni di accordi internazionali impegnativi e solenni le emissioni di anidride carbonica sono cresciute di oltre il 70% invece di stabilizzarsi ai livelli del 1990, la concentrazione di CO2 in atmosfera è oltre 415 parti per milione al di sopra della soglia critica di 400; il consumo di combustibili fossili continua a crescere, il trend della crescita della temperatura va ben oltre i 2°C previsti dall’accordo di Parigi del 2015; lo scioglimento dei ghiacci nell’Artico e nell’Antartide ha un un’estensione in linea con le peggiori previsioni, le alte temperature nell’Artico stanno determinando il degrado del permafrost con effetti locali e globali non ancora stimati, gli incendi delle foreste liberano emissioni di CO2 invece di assorbirla, gli eventi climatici estremi sono cresciuti di intensità e frequenza con vittime e danni economici crescenti soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Insomma, i governanti e i politici dovrebbero prendere atto che vanno prese decisioni urgenti e radicali per ridurre il consumo dei combustibili fossili responsabili delle emissioni, proteggere le foreste, modificare l’uso dei suoli, difendere le zone costiere dove si concentra almeno metà della popolazione mondiale. Decisioni complesse, che in gran parte potrebbero avere effetti positivi nell’arco di decenni, ma che devono essere prese oggi.

Decisioni ancora più difficili perché la riduzione dei combustibili fossili riguarda prevalentemente gli Usa, secondi nella classifica delle emissioni dopo la Cina e che sono usciti dagli accordi sul clima, e le grandi economie emergenti – a partire da Cina e India – in uscita dal sottosviluppo con una crescita accelerata che ha consumato e consuma grandi quantità di carbone e petrolio. Negli ultimi 10 anni la Cina, e più recentemente l’India, hanno progressivamente “disaccoppiato” la crescita economica dall’aumento delle emissioni: la Cina è oggi l’economia che investe di più sulle fonti rinnovabili e sull’efficienza energetica, e l’India si è avviata sulla stessa strada. Ma in questi due paesi ci sono due miliardi di persone che vivono ancora in condizioni di sottosviluppo e povertà, e dunque è prevedibile la continuazione della crescita delle due economie e dei consumi energetici a ritmi da 3 a 5 volte superiori a quelli dell’Europa.

In altre parole la riduzione delle emissioni ha almeno due facce. Da un lato sono necessarie misure urgenti per ridurre il consumo globale di combustibili fossili e assicurare la risposta alla domanda crescente di energia con fonti alternative a basso o zero contenuto di carbonio. Per raggiungere questo risultato le economie emergenti possono assumere impegni “affidabili” di riduzione dei consumi dei combustibili fossili se sono messe in condizione di poter accedere a fonti alternative senza mettere a rischio la crescita. Questo richiede un quadro stabile e senza barriere commerciali di cooperazione economica e tecnologica tra i paesi sviluppati e le economie emergenti (almeno Usa, Europa, Giappone, Canada, Russia, Cina, India, Indonesia, Corea del Sud, Nigeria, Sudafrica, Egitto, Iran, Arabia Saudita, Brasile e Messico). Altrimenti è prevedibile un aumento dei consumi di carbone e olio. Dall’altro lato un quadro stabile di cooperazione economica e tecnologica è molto difficile in un contesto di guerra dei dazi e indebolimento del multilateralismo.

In questo contesto l’Europa, a partire dalla Germania, conferma impegni significativi e onerosi per la decarbonizzazione. Ma l’Europa conta il 10% delle emissioni globali. Ovvero gli investimenti europei nelle tecnologie della decarbonizzazione non hanno grandi effetti sulla riduzione delle emissioni globali, ma hanno senso soprattutto se queste tecnologie verranno destinate alla decarbonizzazione delle economie emergenti. Ma questo richiede appunto un quadro di cooperazione stabile di cooperazione economica e tecnologica.

New York si chiuderà forse con una dichiarazione comune “ambientalista”, ma è difficile che possano emergere decisioni impegnative e adeguate all’urgenza della crisi climatica. Insomma sarà salvaguardata la “liturgia” delle grandi conferenze climatiche senza conseguenze. Sarebbe già un buon risultato se venisse riconosciuto che il cambiamento climatico va inserito come criterio di riferimento nell’agenda delle discussioni sulle relazioni economiche e commerciali tra le grandi economie del pianeta. Ovvero bisogna cambiare format e tavolo di negoziato per affrontare i nodi del cambiamento climatico.

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