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Gli ultimi dati Istat su fatturato industriale, commercio con l’estero, tendenze dell’occupazione tratteggiano un’Italia “piatta” che scivola in una nuova recessione. Ciò ha implicazioni serie per la politica di bilancio a cui il governo sta lavorando. Per afferrarne le dimensioni, occorre situarla nel contesto più ampio del dibattito sulla stagnazione secolare, di nuovo accesso in questi ultimi tempi da numerosi economisti, soprattutto da Lawrence Summers, Professore a Harvard e già Segretario al Tesoro negli ultimi anni dell’Amministrazione Clinton nonché Presidente del Comitato dei consiglieri economici di Obama. L’idea non è sua, ma di un altro economista americano, Alvin Hansen (1887-1975), che l’aveva coniata per descrivere la situazione economica che precedette la Grande depressione: economia stagnante ma finanza esuberante prima del tracollo.

La stagnazione secolare aumenta i pericoli di politiche monetarie espansive e competitive e anche di guerre valutarie, come sta avvenendo in questi mesi. Si tratta di un gioco a somma zero, poiché le oscillazioni valutarie spostano la domanda da un’area monetaria a un’altra senza aumentarla a livello globale. Quello che ci vorrebbe, secondo Summers, è un coordinamento internazionale per evitare un ricorso eccessivo e controproducente alle politiche monetarie e per affrontare insieme collegialmente i problemi affidandosi alle politiche di bilancio. Le politiche monetarie accomodanti (che vengono intese dalle banche centrali come espedienti di breve termine, non necessità di lungo termine) vedono diminuire i loro effetti concreti, aumentando i pericoli di bolle speculative o eccessiva propensione al rischio. Ed è, sottolinea Summers, necessaria una maggior cooperazione: tra Stati sulla politica di bilancio e tra banche centrali su quella monetaria. Tutto ciò suona come un atto di accusa non solo nei confronti delle pressioni di Trump nei confronti della Federal Reserve per una riduzione ulteriore dei tassi ma anche delle politiche della Banca centrale europea (Bce).

La stagnazione secolare accompagna bassa crescita e instabilità finanziaria, ma soprattutto rischia di schiacciare la classe media, con serie conseguenze economiche e politiche. In buona sostanza, con “stagnazione secolare” si intende quella situazione in cui l’economia a meno di essere stimolata da azioni pubbliche straordinarie di tipo monetario e fiscale o da un indebitamento del settore privato molto elevato, è destinata a crescere poco o niente, a stagnare appunto, a causa di una domanda di beni e servizi insufficiente.

Le economie occidentali sono riuscite a contenere la stagnazione con deficit pubblici molto elevati (Stati Uniti e Giappone), politiche monetarie estremamente espansive a tassi di interesse reali negativi, oppure grazie a un indebitamento privato alquanto pesante specie, ma non solo, nel settore immobiliare. Per non parlare della crescita abnorme dei rendimenti borsistici. Il risultato è stato una crescita modesta dell’economia reale nonostante misure finanziarie eccezionali.

Quali le radici? Una determinante è il fatto che la spinta della crescita da parte della net economy e il progresso tecnologico della new economy non è all’altezza della spinta causata dalle grandi invenzioni del passato. Un esempio di una grande invenzione che ha aumentato alla grande la produttività è il metodo di produzione della catena di montaggio del fordismo. Questa ipotesi è stata documentata da Robert J. Gordon, da Owen. C. Paepke e Tyler Cowen. La stagnazione secolare sarebbe, quindi, collegata all’ascesa dell’economia digitale. Carl Benedikt Frey, ad esempio, ha suggerito che le tecnologie digitali assorbono relativamente poco capitale, creando solo poca domanda di investimento rispetto ad altre rivoluzioni tecnologiche del passato.

Un’altra determinante è che i danni causati dalla recessione iniziata nel 2008 durano così a lungo e permanentemente, che numerosi lavoratori non troveranno mai più un’occupazione e che si è sviluppata una persistente e inquietante riluttanza delle imprese a investire e dei consumatori a spendere, forse in parte perché molti dei recenti guadagni sono andati alle fasce più alte della scala sociale che tendono a risparmiare più di altri. Un’altra ancora è che le economie avanzate stanno pagando il prezzo per anni di investimenti inadeguati nelle infrastrutture e nell’istruzione, gli ingredienti fondamentali della crescita. Una quinta è legato alla diminuzione della mortalità e all’aumento della longevità, quindi ai cambiamenti nella strutture demografica, che colpisce sia la domanda, attraverso l’aumento dei risparmi, sia attraverso l’offerta a ragione della riduzione di attività e di produttività. Infine, la crescita economica è in gran parte legata al nesso tra energia restituita e energia investita (EROEI), o surplus energetico. Ed tema inizialmente sollevato dal Club di Roma nella prima parte degli Anni Settanta del secolo scorsa. Ora ritorna in nuova guisa sotto le spettro dei danni causati dal cambiamento climatico. Secondo un lavoro di Tim Jackson (The Post Growth Challenge), tassi di crescita rasoterra sarebbero ‘la nuova normalità’.

In questo quadro, il governo Conte bis deve effettuare scelte difficili di politica di bilancio. Da tempo, negli Usa, il Congressional Budget Office suggerisce per gli Stati Uniti politiche espansionistiche contro la ‘stagnazione secolare’. Ma in Italia, ci sono non tanto i vincoli europei, che possono essere ammorbiditi, quanto l’esigenza di collocare un terzo del debito pubblico all’estero.

La strada per la crescita italiana è tutta in salita. L'analisi di Pennisi

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