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Secondo le ultime informazioni arrivate da funzionari americani alla CNN, c’è “un’alta probabilità” che i missili che hanno colpito sabato due impianti petroliferi in Arabia Saudita siano stati lanciati dall’Iran, da postazioni nell’area prossima al confine iracheno. Il fatto che si parli di missili da crociera, e non di droni è ormai assodato e rimbalza al mittente la rivendicazione dei ribelli yemeniti Houthi, che diventa una sorta di depistaggio diplomatico a protezione di Teheran – anche se rimane la possibilità che si sia trattato di un attacco congiunto, quello che altre fonti sui media americani hanno chiamato “lo sciame”, missili più droni.

D’altronde già dalle immagini satellitari diffuse dal Pentagono domenica si poteva comprendere una certa traiettoria: lo Yemen sta a sudovest delle due zone colpite, i punti di impatto rivolti a nord; non bastasse, gli Houthi dicono di aver lanciato contro i due impianti dieci droni, ma ci sono 17 crateri d’impatto ben visibili nelle immagini. Com’è possibile? Per ora siamo ai livelli grotteschi del colpo di Oswald, ma servono altre conferme, ufficiali. Dettaglio in più da non sottovalutare: tra i rottami sarebbe stato raccolto il motore di un missile Quds-1, una nuova tecnologia iraniana che per quanto noto non ha capacità di coprire le distanze tra lo Yemen e la parte di Arabia Saudita colpita (circa 1000 chilometri) – dunque è stato lanciato da più vicino, per esempio dal confine iracheno con l’Iran (da cui i chilometri sono circa la metà).

Il coinvolgimento diretto dell’Iran – indiretto sarebbe stato nel caso dell’azione Houthi, perché l’organizzazione è collegata a Teheran, fosse solo per il rifornimento militare – è un elemento di estrema complicazione. Washington sta cercando di tenere un profilo controllato, ma se verrà dimostrato che Teheran è responsabile netto del dimezzamento della produzione petrolifera saudita tramite un bombardamento – un colpo che ha sconquassato il mercato mondiale del greggio – allora sarà difficile controllare la situazione. Per ora ci sono state accuse, toni duri (evocata una ritorsione, il segretario di Stato, Mike Pompeo è diretto a Jeddah e ad Abu Dhabi per incontri con i due eredi al trono con cui parlare di come rispondere; il vicepresidente ha detto già che l’esercito americano “è pronto”). Ma anche più concilianti. Al momento il presidente Donald Trump tiene il piede saldo sul freno, perché, come già successo negli ultimi mesi più di una volta, si è di nuovo sull’orlo di una grande guerra regionale/globale che non è nell’interesse di nessun attore principale. Men che meno degli Stati Uniti che il prossimo anno andranno di nuovo alle presidenziali.

Da quando sono scaduti i meccanismi di esenzione sull’export petrolifero a maggio – come previsto dopo l’uscita degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare con l’Iran decisa sempre a maggio, ma dello scorso anno – la situazione nel Golfo è precipitata. Le anime oltranziste iraniane hanno ricominciato a pressare sulla necessità di crearsi consensi: dinamiche giocate sia contro l’Occidente, sfruttando lo stallo della situazione, ma anche sgomitando contro il governo pragmatico del presidente Hassan Rouhani. Da lì s’è assistito a episodi a bassa e media intensità – i sabotaggi contro le petroliere, i sequestri di alcuni cargo, la retorica aggressiva – con alcuni picchi. L’abbattimento del drone Global Hawk da parte dei Pasdaran a giugno è uno di questo, l’attacco ai due sistemi petroliferi sauditi un altro.

Il direttore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale, Paolo Magri, presentando un report sulla crisi in corso (scritto per il think tank da Annalisa Perteghella), dice che quello che è successo è “una nube in più per la già tentennante crescita mondiale e un’ulteriore spina nel fianco alla oscillante politica di massima pressione avviata da Donald Trump sull’Iran”. Secondo l’analisi dell’Ispi, da maggio Teheran ha dimostrato che vuol far leva sulla pressione schiacciante imposta da Washington, “da una parte con la graduale violazione di alcune parti dell’accordo sul nucleare, dall’altra con l’adozione di una postura più aggressiva nel quadrante del Golfo Persico”. Il fine iraniano è “il sollevamento delle draconiane sanzioni sul petrolio che hanno privato Teheran della principale fonte di entrate economiche”.

In questo quadro, certi attacchi diventano un elemento fondamentale, con cui l’Iran dimostra di poter contro-pressare e di essere in grado di colpire profondamente i propri avversari, fa capire di poter gestire il quadro della sicurezza regionale, ma allo stesso tempo si lascia spazi per la cosiddetta plausible deniabilit”, ossia la tattica con cui nascondere l’autore di un’azione militare. In questo gioco di forza, l’azione di sabato potrebbe essere un monito rischioso con cui ricordare quel che c’è in gioco, un metodo per arrivare a un eventuale incontro Trump-Rouhani (a questo punto meno probabile nell’immediato futuro, ma ancora da non escludere del tutto) da un’apparente posizione forte e non come un paese sfiancato dalle sanzioni. Sempre che però Teheran riesca a mantenere nebuloso il proprio coinvolgimento. Aspetto che i dati finora diffusi smentiscono, ma su cui un certo genere di politica-diplomatica potrebbe anche gettare una pennellata coprente.

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