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Da anni tutti sostengono di condividere la tesi che la difesa sia un “sistema” di cui fanno parte le istituzioni, presidenza della Repubblica, governo e Parlamento (che definiscono la nostra politica militare e il relativo finanziamento), le Forze armate (che, con la loro organizzazione e i loro equipaggiamenti, rappresentano lo “strumento militare” a tutela della difesa e della sicurezza del Paese) e il mondo dell’industria e della ricerca (che, attraverso le capacità tecnologiche e industriali e, in particolare, l’innovazione, deve garantire un certo livello di sovranità e autonomia). Questo “sistema” è, peraltro, ormai integrato nel contesto europeo e, per una certa parte, in quello dell’alleanza transatlantica.

TRE ESPERIENZE EMBLEMATICHE

Come tutti i sistemi, per essere efficiente deve anche essere equilibrato e le sue parti devono muoversi in modo ordinato e coerente, senza strappi e manovre isolate. Il presupposto del “fare sistema” è quindi che ciascuno svolga il suo ruolo e che le le scelte siano il risultato di un confronto, al cui termine vengano prese le decisioni del caso rispettando le procedure e le prerogative istituzionali alla base del nostro ordinamento. Nella pratica, invece, queste regole elementari vengono troppo spesso dimenticate da “giocatori” poco inclini al loro rispetto e al “fare squadra”. Nel campo delle scelte strategiche per la politica industriale della difesa vi sono tre casi emblematici: il programma del velivolo da attacco al suolo F-35, il progetto Tempest per un velivolo da combattimento di sesta generazione, e l’accordo fra Fincantieri e Leonardo nel campo delle navi militari.

IL CASO F-35

La partecipazione al programma americano per il velivolo da combattimento F-35 fu presa dalle Forze armate e dal ministro della Difesa Andreatta alla fine degli anni Novanta. L’industria avrebbe preferito aspettare un’ipotetica soluzione europea basata sull’auspicata evoluzione dell’Eurofighter, ma prevalsero la volontà di privilegiare le esigenze operative (sostituzione indispensabile di velivoli destinati alla dismissione), i vantaggi tecnologici di un velivolo di quinta generazione, l’interoperabilità transatlantica e con altri importanti partner europei, la prevista riduzione dei costi di acquisto ed esercizio, nonché la spinta a rendere più competitiva l’industria italiana. Tutti vantaggi che non trovavano alternative in Europa, vista la volontà francese e svedese di procedere su strade nazionali, e soprattutto quella tedesca di non investire più, per oltre un decennio, in velivoli di nuova generazione. Per salvaguardare gli interessi nazionali nell’acquisizione degli F-35 si puntò alla realizzazione di una linea di integrazione del nuovo velivolo a Cameri, e all’utilizzo di tale infrastruttura per il supporto logistico e la manutenzione, oltre che per la costruzione di un elevato numero di semiali e tronco di fusoliera da parte italiana. L’accordo con gli Stati Uniti non ha sicuramente soddisfatto tutte le nostre aspettative, per diverse ragioni, ma non tutte le possibilità sono ancora perdute e, comunque, il bilancio andrà fatto alla fine, soprattutto per tener conto dell’intero ciclo di vita del velivolo.

LE DIFFICOLTÀ

In questo caso, comunque, a livello sistemico si è registrata l’opposizione (non ancora sopita) di una parte dell’industria italiana, e i tentennamenti governativi a partire dal gratuito taglio del numero totale dei velivoli programmati da parte del governo Monti, per arrivare ai mal di pancia dei governi Renzi e Gentiloni e ora alla politica del rinvio del governo Conte che, in carica da più di un anno, sembra non sapere ancora bene come conciliare il desiderio di non contrariare l’amministrazione Trump con le posizioni assunte dal M5S quando era all’opposizione e poi in campagna elettorale. Nel frattempo, lascia andare avanti le cose per inerzia perdendo molte opportunità offerte dal programma: basti pensare all’assemblaggio e manutenzione degli F.35 norvegesi o belgi che potrebbe essere fatta a Cameri, o alla sostituzione delle imprese turche, con importanti ritorni industriali se solo il “sistema” difesa si muovesse in sincrono. Una brutta prova delle capacità italiane di “fare sistema”, con continue invasioni di campo e inversioni dei ruoli dei protagonisti.

IL CACCIA DI SESTA GENERAZIONE

Sempre nel campo aeronautico, il progetto Tempest per un velivolo di sesta generazione è stato definito dal Regno Unito lo scorso anno. L’Aeronautica italiana e la maggior parte dell’industria nazionale, dopo aver esaminato anche la teorica alternativa rappresentata dal progetto franco-tedesco Fcas (ma, in realtà, Parigi e Berlino hanno chiarito fin dall’inizio di voler condurre da soli la prima fase), sono giunti alla conclusione che il progetto Tempest può meglio soddisfare le esigenze operative, industriali e tecnologiche italiane (come confermato dallo studio “Il futuro velivolo da combattimento e l’Europa” pubblicato a marzo dallo Iai). Di qui, l’avvio di colloqui informali con il partner inglese per definire nel dettaglio le forme di una nostra possibile partecipazione. Recentemente vi è, però, stato un intervento del ministro della Difesa Trenta che ha manifestato pubblicamente i suoi dubbi sulla validità delle scelte dei vertici militari, chiedendo un approfondimento al partner francese. Un’altra brutta prova “sistemica” perché al primo posto nella scelta degli equipaggiamenti dovrebbero essere poste le esigenze operative e la sovranità tecnologica e industriale, non gli orientamenti politici del momento (peraltro difficili da comprendere, visti i pessimi rapporti che il governo Conte ha con il partner francese e, in parte, tedesco), e comunque il confronto andrebbe fatto prima all’interno del ministero per poi seguire con coerenza la strada intrapresa senza improvvise inversioni di marcia. A fronte della certezza di non ottenere nulla da Francia e Germania, il rischio è ora, se Roma non accelera il negoziato politico con Londra, quello di perdere posizioni nei confronti della Gran Bretagna che ha da poco siglato un accordo con la Svezia per l’ingresso di quest’ultima nel Tempest.

L’ACCORDO SUL NAVALE

Infine, una delle debolezze dell’industria navale italiana sul mercato internazionale è stata quella di non operare in forma integrata fra cantieri, sistemisti e fornitori di sistemi. Al fine di “fare sistema” il 9 ottobre 2014 le due maggiori società italiane del settore comunicano che è stato firmato, alla presenza del ministro della Difesa Pinotti, un “accordo di collaborazione nel settore delle costruzioni navali militari tra Fincantieri e Finmeccanica, con l’obiettivo di aumentare la competitività sui mercati nazionali ed esteri, attraverso una più efficace ed efficiente offerta integrata dei prodotti delle due Società. In particolare, la collaborazione si svilupperà sfruttando le sinergie tecniche e commerciali tra l’unità di business Navi Militari di Fincantieri e le aziende del gruppo Finmeccanica (le controllate Selex ES, Oto Melara e WASS nonché la joint venture MBDA Italia) che detengono competenze distintive nei sistemi di combattimento, nell’elettronica e nei sistemi d’arma navali e subacquei”.

Purtroppo poi non succede nulla finché, esattamente quattro anni dopo, il 9 ottobre 2018, le due società comunicano che, a valle dell’accordo precedente, si è raggiunta “un’intesa nel settore delle navi militari per cogliere al meglio le nuove sfide sui mercati internazionali al fine di presentare soluzioni congiunte in un settore sempre più competitivo ed esigente. La valorizzazione delle reciproche competenze – sviluppate in ambito nazionale in un’ottica di Sistema Paese – passerà attraverso il rilancio di Orizzonte Sistemi Navali (OSN), la Joint Venture partecipata da Fincantieri e Leonardo con quote rispettivamente del 51% e del 49%, a cui entrambe le parti hanno previsto di conferire risorse che le consentiranno di assumere la responsabilità del Sistema di Combattimento, definendo requisiti e architettura dei singoli componenti, ivi compreso il Combat Management System (CMS)”.

Da allora sono passati dieci mesi e il progetto ancora non decolla. Nel frattempo l’industria italiana ha perso una serie di importanti potenziali commesse (Australia, Canada, Brasile, Romania), ma né da parte delle Forze armate, né da parte del governo (e in primo luogo del ministro della Difesa) si è registrato alcun segnale. Ed ora bisognerà conciliare l’auspicata volontà di “fare sistema” con l’accordo, appena autorizzato dal governo, fra Fincantieri e la francese Naval Group per integrare progressivamente le rispettive capacità nel campo delle navi militari: una sfida quasi impossibile da vincere per l’Italia se gli attori nazionali continueranno solo a parlarne invece che assumere comportamenti coerenti con gli interessi nazionali.

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