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Il governo cinese ha fatto sapere martedì che “non starà pigramente” a guardare e prenderà contromisure adeguate se gli Stati Uniti dovessero dispiegare missili a raggio intermedio nella regione dell’Asia-Pacifico. Ne ha parlato pubblicamente il direttore del Dipartimento per il controllo degli armamenti del ministero degli Esteri cinese, Fu Cong, che ha anche consigliato ad altre nazioni – in particolare a Corea del Sud, Giappone e Australia, i principali alleati americani nella regione continentale – di “esercitare la prudenza” e di non consentire agli Stati Uniti di piazzare certi armi sul loro territorio, dicendo che “non servono gli interessi di sicurezza nazionale di questi Paesi”.

È un messaggio incrociato, con cui il Dragone minaccia ritorsioni indirette contro Washington prendendo di mira Seul, Tokyo o Canberra, sapendo che sono alleati fondamentali per gli Usa nel quadrante. La dichiarazione da Pechino arriva nei giorni di fall-out dopo l’effettivo ritiro americano dall’Inf, l’accordo chiuso tra Usa e Urss nel 1987 per il controllo dei sistemi nucleari a lanciamento terrestre e raggio medio. Un’uscita che gli americani pensano da almeno cinque anni, dopo aver registrato violazioni russe (con la costruzione di un nuovo sistema missilistico che il trattato avrebbe proibito; violazioni evidenziate pubblicamente per la prima volta da Barack Obama nel 2014).

Ma anche guardando alla Cina, potenza militare crescente che ai tempi della firma Reagan-Gorbaciov non era inclusa tra le potenziali minacce nucleari, ma che arrivati al 2019 non solo ha sviluppato il deterrente atomico, ma ha anche espanso i propri interessi e il proprio controllo su diverse aree del pianeta, a cominciare dalla regione indo-pacifica, su cui il Pentagono ha concentrato un rinnovato interesse strategico e in cui diverse turbolenze stanno venendo a galla proprio in queste settimane – frutto dell’instabilità collegata a diversi dossier finora più o meno sopita.

Il nuovo segretario alla Difesa, Mark Esper (nominato dopo mesi di vacanza alla guida del Pentagono), la scorsa settimana ha approfittato di una ministeriale a Bangkok per visitare il teatro operativo dell’Indo-Pacific Command (un tempo solo PaCom, rinominato per esigenze d’interesse strategico, appunto) e durante il tour ha detto che Washington sta cercando di individuare spazi dove dispiegare missili, non nucleari, come elemento dissuasivo per eventuali conflitti.

Non ha parlato dei luoghi, ossia dei paesi che potrebbero prestarsi, ma è piuttosto logico pensare che possano essere quelli indicati dal ministero cinese, vista la compattezza della partnership; poi ha chiarito che non c’è nessuna richiesta formale aperta, e si tratterà di un processo che potrebbe anche richiedere anni – sono argomenti complicati, che possono alterare la dimensione internazionale di un paese e gli equilibri regionali: chi dovesse accettare i missili rischierebbe ritorsioni diplomatiche ed economiche da parte di Pechino. Il capo del Pentagono ci ha tenuto a smentire “coloro che pensavano che avremmo lanciato missili già la prossima settimana”, ha detto sarcasticamente.

L’argomento è già al centro di uno dei dibattiti politici che anima Capitol Hill. Ci sono da stanziare finanziamenti, ma i Democratici – che stanno cercando ogni strada per marcare la linea di opposizione in vista delle presidenziali del prossimo anno – vogliono garanzie sulle policy con cui l’amministrazione Trump intende sostituire l’Inf. Mentre la Cina ha già fatto sapere di non voler discutere un nuovo accordo a tre. Il confronto con Pechino è recepito in forma bipartisan al Congresso, e la necessità di inserire la Cina – forse più della Russia – in un sistema di deterrenza viene considerata prioritaria in questo momento dai pianificatori di Washington tra entrambe le fazioni politiche.

(Foto: Flickr, US Missile Defense Agency)

Il braccio di ferro fra Cina e Usa continua. Ora lo scontro è sui missili

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