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Le istanze di maggiore autonomia di alcune Regioni non sono una questione puramente tecnico-amministrativa, ma un processo con una grande valenza politica, che può influenzare e modificare tanto i princìpi di parità dei diritti di cittadinanza degli italiani quanto il funzionamento di alcuni grandi servizi pubblici nazionali, a partire dalla scuola. Si tratta di questioni sulle quali la grandissima maggioranza dei cittadini non è affatto informata. Le iniziative delle Regioni Veneto e Lombardia sono esplicitamente finalizzate a ottenere, sotto forma di quote di gettito dei tributi che vengono trattenute, risorse pubbliche maggiori rispetto a quelle oggi spese dallo Stato a loro favore.

Con risorse pubbliche nazionali disponibili date (e comunque difficilmente aumentabili per via delle condizioni della finanza pubblica italiana), questo significa spostarne una quota maggiore a loro favore, conseguentemente riducendole per i cittadini delle altre Regioni italiane a statuto ordinario. Configurando così una vera e propria secessione dei ricchi: le Regioni a più alto reddito trattengono una parte maggiore delle tasse raccolte nel proprio territorio, sottraendola alla fiscalità nazionale. La secessione dei ricchi prodotta dalle iniziative di autonomia differenziata avviene stabilendo per principio, come già previsto nelle pre-intese di febbraio 2018, che le risorse nazionali da trasferire per le nuove competenze siano parametrate, dopo un primo anno di transizione, a fabbisogni standard calcolati tenendo conto anche del gettito fiscale regionale e fatto comunque salvo l’attuale livello dei servizi (cioè prevedendo variazioni solo in aumento). Ma rapportare il finanziamento dei servizi al gettito fiscale significa stabilire un principio estremamente rilevante: i diritti di cittadinanza, a cominciare da istruzione e salute, possono essere diversi fra i cittadini italiani; maggiori laddove il reddito pro capite è più alto.

La richiesta di trattenere sul territorio regionale una quota maggiore del gettito fiscale regionale, che è alla base di queste iniziative, si basa sulla rivendicazione del residuo fiscale. Ma di che cosa si tratta, esattamente? Il residuo fiscale è una stima, non un dato oggettivo. Essa viene compiuta sottraendo dalla spesa pubblica complessiva che ha luogo in un territorio l’ammontare del gettito fiscale generato dai contribuenti residenti nello stesso territorio. Se la differenza è negativa, quel territorio riceve meno spesa rispetto alle tasse versate; ciò significa che se non facesse parte di una comunità nazionale più ampia, potrebbe “permettersi” una spesa maggiore. Tuttavia, la redistribuzione operata dall’azione pubblica non è fra territori, ma fra individui, e considerare il residuo fiscale significa che la Regione di residenza degli individui diventa rilevante nel determinare il trattamento che ciascun italiano riceve dall’azione pubblica. Ma questo modifica radicalmente il principio politico dell’equità orizzontale, dato che tratta diversamente individui dalle stesse caratteristiche soggettive, solo perché abitano in luoghi diversi; fa nascere per principio italiani di serie A e italiani di serie B.

Così come si calcola il residuo fiscale regionale, potrebbe essere calcolato quello comunale all’interno di ciascuna Regione, con Milano che potrebbe protestare per il proprio residuo negativo rispetto al resto della Lombardia; e potrebbe essere calcolato quello dei quartieri all’interno di ciascuna città, con i residenti nel centro storico di Milano che potrebbero protestare per i trasferimenti a favore dei quartieri più poveri. E via via fino ai singoli individui. Ciò illustra bene come le questioni in ballo abbiano una grande valenza politica, ancor più che territoriale: esse toccano i princìpi di eguaglianza fra i cittadini e le finalità dell’azione pubblica.

Vi racconto il rischio secessione dietro l'autonomia regionale

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