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Durerà, almeno qualche altro giorno, l’attenzione concessa dai media alla commemorazione della fondazione del Partito Popolare, nato sotto la guida di don Luigi Sturzo il 18 gennaio 1919 a Roma, in una stanza dell’Hotel Santa Chiara, dove risuonò l’”Appello ai liberi e forti”? E, soprattutto, si trasformerà in rinnovata e innovativa tensione politica? Oppure rimarrà semplicemente a documentare la doverosa rievocazione storica di un fatto accaduto cento anni fa ed esauritosi in poco più di un lustro, stroncato in realtà – oltre che dall’arroganza del regime fascista – dall’incomprensione di una parte considerevole e influente di quello stesso mondo cattolico nel quale il partito di Sturzo pur si radicava e al quale tentava di assicurare la possibilità di essere rappresentato in Parlamento?

All’indomani dei convegni “sturziani” tenutisi in più luoghi – non solo a Roma, ma anche in altre parti d’Italia, specialmente in Sicilia: a Caltagirone, a Caltanissetta, a Catania, a Palermo addirittura per tre giorni di fila – rimane l’eco di una sorta d’epopea, narrata con timbro ora ingenuamente retorico ora più seriamente critico, della quale però nessuno più osa mostrare la minima nostalgia.

Difatti, tutti sembrano d’accordo su un dato reputato certo: non si può e, anzi, non si deve pensare alla ricostituzione di un anacronistico partito dei cattolici. E se qualcuno continua a lanciar loro ondivaghi appelli, avvertendo che è comunque necessario inventarsi al più presto qualcosa per smarcare il cattolicesimo dall’irrilevanza nell’odierno scenario politico e per offrire un peculiare apporto al conseguimento del bene comune, si ha l’impressione di sentire la sequela di falsi allarmi lanciati da quel buontempone che si divertiva a urlare “al fuoco al fuoco”, fino a quando la gente del suo villaggio – abituatasi a considerare fasulli quei richiami – non finì per sottovalutare il grido finale che realmente annunciava lo scoppio di un incendio ormai inarrestabile.

Si può fare una riflessione a partire da questa paradossale situazione. Riguarda l’opportunità di distinguere – coerentemente alla visione sturziana – un partito di cattolici dal partito dei cattolici. Il Ppi volle essere “un” partito “di” cattolici, non “il” partito “dei” cattolici. Sturzo lo pensava, cioè, come un partito tra gli altri, costituito da persone disposte a “cooperare ai fini superiori della Patria”, “senza pregiudizi né preconcetti”, pronte perciò a impegnarsi in politica con tutte le loro energie, con creatività e in autonomia, concordi su un programma condiviso e obbedienti innanzitutto alla propria coscienza, che per un credente come lui non poteva essere concepita che come coscienza aperta alle istanze compiutamente umane e alle esigenze profondamente etiche annunciate anche e principalmente nel Vangelo. A cominciare dalla democrazia, che Sturzo preferiva qualificare con aggettivi condivisibili da molti, più laici rispetto a quello scelto da Murri prima e poi da De Gasperi, parlando per esempio – in un suo discorso radiofonico – di “democrazia solidale”. Ecco perché il Ppi avrebbe dovuto essere aconfessionale: vale a dire il più inclusivo e pluralistico possibile, aperto al contributo persino di chi cattolico non si professava affatto. Diversamente, avrebbe rischiato di essere piuttosto il “partito cattolico”, come tale inevitabilmente certificato da chi ne ha la competenza magisteriale e l’autorità pastorale. E, quindi, condizionato dalle insindacabili direttive della gerarchia ecclesiastica.

Per Sturzo, invece, un partito gestito o al limite solo orientato clericalmente era inconcepibile. A suo parere, un “partito dei vescovi” – come oggi si dice – restava fuori discussione. Nell’ottica sturziana, insomma, il compito dei vescovi non può essere quello di organizzare e dirigere un partito politico cattolico. La loro leadership è di tutt’altra natura. Essi sono chiamati a ben altro servizio: formare nell’esperienza credente i cattolici, educarli a vivere secondo uno stile evangelico, guidarli e accompagnarli in tale direzione con la loro testimonianza. E in questa prospettiva spingersi a fare la loro parte sino in fondo, immaginando modalità catechetiche sempre più convincenti e avvincenti, offrendo una predicazione serena e serenante e al contempo profeticamente provocatoria, lucida nell’interpretare il mondo alla luce del Vangelo, coltivando una consapevolezza teologica sempre più solida e avvertita, confrontandosi inoltre con le più disparate culture e invitandole tutte a prendere in considerazione la disponibilità ad aprirsi al Trascendente, o come diceva Sturzo al “Soprannaturale”, senza alienarsi e senza distrarsi dalla storia, cioè dall’orizzonte in cui Dio s’è chinato a incontrare gli uomini.

C’è, anche in Italia, un tessuto logoro da rigenerare. Del resto, se non ci saranno sempre nuovi cattolici (e cattolici sempre nuovi), davvero – a lungo andare: leggasi a breve – non potranno più essercene in alcun partito e nemmeno potrà esserci nessun partito di cattolici. Ciò vale pure per altri ambiti, come la scuola, l’università, l’economia, la finanza. Questa è, semmai, la responsabilità – anche politica e sociale, lo si può ammettere – della Chiesa.

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Ancora Sturzo? I cattolici in politica e le responsabilità della Chiesa

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