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Portata a casa, bene o male, la legge di bilancio e varati i provvedimenti monstre del reddito di cittadinanza e “quota cento”, sembrerebbe che la spinta propulsiva del governo gialloverde si stia rapidamente esaurendo. Fibrillazioni sempre più evidenti. Contrasti sempre più forti. Vere e proprie dichiarazioni di guerra, come nel caso della votazione in Senato sulla richiesta di autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini. Estenuanti tentativi del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, per venirne a capo. E le cose ancora più dirompenti, come il caso della Tav, sono nodi ancora non venuti al pettine.

Nessuna sorpresa. La lunga storia italiana dimostra quanto sia difficile, alla lunga, tenere il piede in due staffe. Garantire cioè la tenuta di un governo effetto da strabismo, in cui i principali membri della coalizione hanno posizioni programmatiche se non opposte, almeno divergenti. Il caso più clamoroso resta, indubbiamente, quello del “compromesso storico”. Allora le due principali forze politiche italiane – la Dc da un lato ed il Pci dall’altro – tentarono la missione impossibile di una convivenza. E sebbene, formalmente, non facessero parte dello stesso governo, al quale i comunisti fornivano solo un appoggio esterno, alla fine il divorzio fu inevitabile. Fu Enrico Berlinguer a gettare la spugna, a seguito del crescente malessere del suo partito. Che mal sopportava un’alleanza contro natura.

Difficile dire se questo sarà (e quando), ancora una volta, l’esito finale. Al momento siamo nella fase dei crescenti mal di pancia, che può precedere il successivo smottamento. Il coperchio sulla pentola che bolle, chiude ancora bene grazie al generale “elezioni”. Nessuno ha interesse a rompere, prima di quella data. Ma, nel frattempo, la temperatura sale e garantire la tenuta del quadro politico diventa sempre più faticoso. Scalpitano soprattutto i 5 stelle, le cui fratture interne appaiono sempre più evidenti. Varie le preoccupazioni, anche al di là del diverso comune sentire di molti militanti.

I sondaggi premiano soprattutto la Lega che qualificano, ormai, come primo partito italiano. Con un sonoro 32 per cento nelle intenzioni di voto. I 5 stelle perdono, invece, terreno. Da partner senior della coalizione rischiano di regredire a semplice minoranza. La cosa che sorprende è che questo pericolo risulta, ormai, interiorizzato. Non è solo il gruppo parlamentare a temere il peggio. Ma sono le seconde e terze file dei quadri intermedi che non fanno mistero del rischio di essere costretti ad una posizione di minorità. Atteggiamento che spiega il crescendo delle posizioni dissonanti di Alessandro Di Battista e di Roberto Fico: sempre più presenti sulla scena politica in una posizione di evidente contestazione nei confronti di Matteo Salvini, la cui azione – può piacere o meno – continua a mietere consensi.

Luigi Di Maio avverte tutte le difficoltà del momento. Ma non può fare altrimenti. Deve rimanere aggrappato alla zattera governativa e sperare in un possibile miracolo. Il suo rapporto con l’altro vice presidente, stando alle continue dichiarazioni, rimane saldo. Matteo Salvini continua ad offrirgli una sponda, ma è un frutto avvelenato. La continuità governativa non gioca, certo, a favore di Gigino. Lascia scoperto uno spazio politico, che Di Battista cavalca con un duplice intento: placare l’animo dei più intransigenti e costruirsi un proprio futuro di possibile Capo del movimento.

L’ultimo contrasto, a proposito della delicata crisi venezuelana, altro non è stato che il catalizzatore di tutte le nascoste divergenze. Alla mano tesa di Matteo Salvini nei confronti di Guaidò, la reazione, quasi brutale di Di Battista non si è fatta attendere: “Firmare l’ultimatum Ue al Venezuela è una stronzata megagalattica – ha postato su Facebook – è lo stesso identico schema che si è avuto anni fa con la Libia e con Gheddafi. Identico. Qua non si tratta di difendere Maduro. Si tratta di evitare un’escalation di violenza addirittura peggiore di quella che il Venezuela vive ormai da anni. E mi meraviglio di Salvini che fa il sovranista a parole ma poi avalla, come un Macron o un Saviano qualsiasi, una linea ridicola”. Risposta al vetriolo del contestato: “Di Battista ignora e parla a vanvera: non solo milioni di Venezuelani, ma anche migliaia di Italiani soffrono da anni la fame e la paura imposti dal regime di sinistra di Maduro. Prima tornano diritti, benessere e libertà in Venezuela, meglio sarà per il popolo”.

Dalla scaramuccia emergono forzature evidenti. La Libia, in questo caso, non c’entra. Il regime di Gheddafi era quello che era. Aveva tuttavia garantito, come mostreranno gli eventi successivi alla sua caduta, la tenuta del Paese. Il Venezuela, invece, vive da anni una delle più gravi crisi non solo della sua storia. Ma che non ha paragoni con nessun altro caso negli ultimi duecento anni. Basta un dato a dimostrarne la tragica dimensione. Nel 2018 il suo tasso d’inflazione è stato pari a 1,3 milioni per cento. Nel prossimo triennio, secondo le valutazioni del Fondo monetario, sarà del 10 milioni per cento. Chi ricorda la Repubblica di Weimar può facilmente constatare che, nemmeno allora, si raggiunsero cifre del genere. In quel tempo ci volevano milioni di marchi per comprare un chilo di pane. A Caracas, quando ancora si stava meglio, nel 2017, il prezzo di una gassosa era equivalente al 12 per cento del salario operaio.

Eppure il Venezuela è, ancora oggi, il principale produttore di petrolio. Riserve immense, che una politica dissennata non riesce ad utilizzare, a causa della mancanza di investimenti. Lo Stato centrale non ha risorse. I capitali esteri si astengono dall’intervenire a causa delle caratteristiche di un “socialismo bolivariano” che non è stato nemmeno capace di imitare lontanamente l’esperienza cinese o quella cubana. Che si è autodistrutto in un isolamento autistico, che negava in radice qualsiasi regola dell’economia. Affondando in una corruzione senza fine. Con un presidente, Maduro, che, servendosi di una Corte costituzionale prezzolata, ha violato in modo sistematico il responso elettorale, annullando le lezioni che avevano favorito le opposizioni. Che ha costretto milioni di suoi concittadini a trasformarsi in profughi, emigrando nei Paesi vicini. Che si appoggia sulla struttura dei militari. Dove si avvertono, tuttavia, le prime crepe.

Nonostante ciò, la scelta dei 5 stelle sembra essere quella di schierarsi con la Russia e la Cina. In aperto contrasto con tutto l’Occidente. Non solo l’Unione europea. Che essa sia meditata c’è da dubitarne. Nemmeno durante gli anni più difficili della “guerra fredda”, il partito comunista italiano osò tanto. Rimase fedele ai dogmi dell’internazionalismo, ma con un disagio crescente, destinato a montare fino all’aperta dissociazione nel caso della Cecoslovacchia. Atteggiamento incomprensibile, quindi, quello di Di Battista. Che trova una sua, seppur debole giustificazione, in interessi di bottega. Tentare di contenere la Lega nella sua continua ascesa. Calcolo che potrebbe dimostrarsi non solo velleitario, ma controproducente.

venezuela governo

Cosa ci dicono del governo le scaramucce tra Salvini e Di Battista sul Venezuela

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