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I procuratori federali statunitensi stanno conducendo un’inchiesta contro la cinese Huawei seguendo un’accusa di furto di proprietà intellettuale. Segreti commerciali che la ditta di Shenzen avrebbe rubato a partner e concorrenti americani, tra cui T-Mobile, la multinazionale della telefonia mobile tedesca che per lo stesso reato aveva già denunciato Huawei nel 2014. A parlarne è in anteprima il Wall Street Journal, che sfrutta i documenti presentati da una fonte anonima informata sul procedere dell’inchiesta – che “è in fase avanzata e potrebbe portare presto all’incriminazione”. Il giornale della finanza americana (e mondiale) è sempre ottimamente informato su certe vicende, anche perché segue una linea non troppo distante da quella dell’attuale Casa Bianca, e riceve spesso imbeccate e anticipazioni dall’interno dell’amministrazione.

IL PRECEDENTE

Stando alle indiscrezioni raccolte dal Wsj tra i casi all’esame del Dipartimento di Giustizia a Seattle sarebbe al vaglio una denuncia di T-Mobile non dissimile da una causa civile che ha visto nel 2014 la multinazionale tedesca contrapposta al gigante hi-tech di Shenzen. I fatti risalgono al maggio 2013, quando T-Mobile permise a un team di ingegneri di Huawei, con cui aveva un contratto di fornitura di tecnologia cellulare dal 2010, di accedere ai laboratori di Bellevue, a Washington DC per studiare, sotto rigide condizioni di riservatezza, il robot “Tappy”. In piena violazione degli accordi contrattuali, i due ingegneri di Huawei introdussero segretamente nella “clean-room” dove era esposto il robot un dipendente al loro seguito, Yu Wang, per scattare foto con il cellulare e inviarle al team di Huawei Cina, come in seguito Wang stesso ha confessato. Colti sul fatto, gli ingegneri giurarono di aver cancellato tutte le foto e dal quartier generale cinese fu confermato che le immagini non sarebbero comunque state di alcun aiuto per riprodurre la tecnologia. Errare humanum est, perseverare autem diabolicum. Solo due settimane dopo uno dei due ingegneri, Xinfu Xiong, nascose dentro la sua valigetta 24 ore un dispositivo di estremità (un appendice di un braccio robotico) sottratto al laboratorio T-Mobile per consegnarlo ai laboratori di Huawei Usa che, condotta una serie di analisi, inviarono i risultati ai colleghi in Cina. T-Mobile intentò a Huawei una causa civile che si è conclusa solo nel 2017 quando la Corte ha riconosciuto che il furto di Xiong ha fruttato all’azienda cinese “centinaia di milioni di dollari” condannando Huawei a un (modesto) risarcimento di 4,8 milioni di dollari.

LA LUNGA TRAMA DEL CASO HUAWEI

Il furto di proprietà è solo uno dei reati che i competitors e le agenzie di intelligence occidentali imputano a Huawei. Più volte colpita per pratiche industriali scorrette – spionaggio, concorrenza sleale – Huawei, il più grande produttore al mondo di tecnologie per le telecomunicazioni e il secondo produttore di smartphone –  è anche al centro di casi di carattere diplomatico che hanno coinvolto tanto gli Stati Uniti quanto i loro alleati compattati dall’amministrazione Trump in un unico fronte anti-Cina. È il caso dei Five Eyes (Australia, Canada, Nuova Zelanda, Uk, Usa), che hanno tagliato fuori la ditta dalle gare di mercato sul 5G perché considerano l’ingresso della cinese una falla nel sistema di sicurezza nazionale e internazionale che l’alleanza di intelligence condivide. Un cerchio che continua ad allargarsi, se è vero, come riporta oggi il quotidiano tedesco Handelsblatt, che anche la Germania starebbe valutando di escludere Huawei dall’asta per il 5G rivalutando i requisiti necessari all’accesso.

Il contrasto alle società di tecnologia cinese è un asset importante dello scontro Usa-Cina, che trova riscontri sul piano commerciale (dove è sfogato nella guerra dei dazi), ma distanze su molti altri argomenti. Washington sa che l’espansione cinese – l’unica super potenza economica e militare che può attualmente contrastare il dominio americano – è collegata al mondo hi-tech, ma ritiene che il settore abbia ricevuto assistenza dallo Stato anche attraverso operazioni di cyber spionaggio con cui certe aziende sono arrivate in possesso di know-how sottratto a competitors statunitensi.

Huawei si difende: dice di essere una società indipendente dal governo di Pechino e dal Partito Comunista di governo, e la settimana scorsa per ribadire la posizione della società ha parlato pubblicamente il fondatore Ren Zhengfei (nella foto con il presidente cinese Xi Jinping), ex ufficiale dell’esercito di liberazione popolare, icona del mondo imprenditoriale cinese, e soprattutto padre di Meng Wanzhou, la direttrice finanziaria di Huawei arrestata a Vancouver lo scorso 6 dicembre con l’accusa di aver violato le sanzioni americane contro l’Iran. In conferenza stampa il patron ha spiegato che Huawei non condivide informazioni sensibili con il governo cinese e per di più ha speso parole di elogio per “il grande presidente” Trump. Una rarità. Ma a quanto pare gli sforzi non sono riusciti nell’intento.

LA NUOVA LEGGE DEL CONGRESSO

Mercoledì un gruppo bipartisan di congressisti ha introdotto alla discussione delle camere una legislazione con cui vietare l’esportazione di componentistica americana a società che violano le leggi statunitensi sul controllo delle esportazioni e sulle sanzioni. Chris Van Hollen, senatore democratico del Maryland tra i promotori della normativa, ha spiegato apertamente che gli obiettivi principali della legge sono Huawei e Zte (altra azienda cinese dell’hi-tech che Washington accusa di aver violato le sanzioni su Iran e Corea del Nord). È l’ennesimo colpo inferto dagli Stati Uniti alla multinazionale hi-tech. Non è passato inosservato: la portavoce del ministero degli Esteri cinese Hua Chunying ha invitato Washington a “porre fine all’isteria”.

L’iter legislativo non dovrebbe incontrare seri ostacoli. Questa posizione anti-Cina, che passa dall’amministrazione Trump al Congresso, è infatti oggi uno dei pochi punti di contatto all’interno delle due anime della politica americana, democratici e repubblicani, altrimenti divise sulla quasi totalità dei temi, tanto più in questa fase di crisi profonda dovuta alla mancata risoluzione dello shutdown.

Caso Huawei, arriva l'indagine federale. Lo scontro Usa-Cina prosegue

Di Emanuele Rossi e Francesco Bechis

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