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Il sindaco di Palermo Leoluca Orlando ha affermato che non applicheranno il “decreto sicurezza” per gli immigrati, e la stessa Anci chiede modifiche, oltre che un tavolo di confronto. Sulla sua scia, hanno cominciato a rispondere lo stesso altri sindaci, tra cui De Magistris. Formiche.net ne ha parlato con Matteo Villa, ricercatore dell’Ispi. “Diciamo che era nell’aria, il Decreto sicurezza sicuramente non piace a una parte dei sindaci locali. Il punto è che l’integrazione è un problema soprattutto per i sindaci a livello locale, e il decreto ha delle conseguenze a livello pratico, sulla probabilità che le persone arrivate dal mare si integrino”, dice Villa. “Poi c’è la questione politica, con alcuni sindaci che vogliono posizionarsi come difensori di qualcosa che a loro avviso è violato”.

Entriamo nel tecnico del Decreto sicurezza.

Quello che è successo è che si sono ristrette le maglie della protezione, prima ancora che dell’accoglienza. Come Ispi avevamo fatto una stima di quello che sarebbe successo. Primo: siccome il Decreto sicurezza abolisce la protezione umanitaria, che era quella che veniva data in larga maggioranza, più o meno alla metà, togliendola aumenteranno le persone che avranno un diniego, raddoppiando l’incremento del numero di migranti irregolari, da settantamila a centoquaranta mila, che si sommano ai cinquecentomila già presenti in Italia. Sfiorando così i settecentomila irregolari, numero che in Italia non si vede dal 2002, quando il governo di centrodestra di allora fece la più grande regolarizzazione della storia italiana. Ma questa soluzione non è all’orizzonte, quindi i sindaci troveranno un maggiore livello di irregolarità, e perciò anche di criminalità.

C’è anche la questione dell’accoglienza.

Esatto, il fatto che le persone non verranno integrate, che non si avranno più risorse per farlo. La protesta dei sindaci si basa sul fatto che non essendoci più la possibilità delle persone, e dei richiedenti asilo, di accedere ai servizi come lo Sprar, e già prima c’era un problema di posti molto ridotti, ora la possibilità di essere inseriti in un percorso si ridurrà ancora di più, con un depotenziamento dello Sprar. Le altre persone restano tutte nei centri di accoglienza straordinari, che vengono ordinarizzati dal decreto, ma a cui vengono tolti alcuni servizi da erogare, togliendo la diaria.

Qual è l’obiettivo del governo?

Non si tratta, come detto da alcuni, di una scommessa sulla paura da parte del governo. Sarebbe una valutazione di breve periodo. Salvini deve mantenere le promesse e far vedere che lo può fare, e la cosa più semplice da fare, e senza costi, è togliere la protezione. I due segnali dati dal ministro dell’Interno sono stati la chiusura dei porti e la diminuzione dei diritti di accoglienza. Ma se tu hai una riduzione degli sbarchi, iniziata già con Minniti, si è già risparmiato, e ci si chiede perché risparmiare ulteriormente, quando si potrebbe investire su cosa non funziona. La promessa di ridurre i servizi non serve a molto, e non ci sarebbe bisogno di ridurre le protezione.

Perché allora lo si è fatto?

Perché è un ottimo simbolo, rapido, per far vedere, come detto in campagna elettorale, che non c’è più spazio in Italia per queste persone. Ma questo genera insicurezza, con l’aumento di irregolari. Rispetto a chi dice che questo serve a generare un clima di avversione per mantenere consenso, io non ne sono molto sicuro. Se sei all’opposizione è un conto, ma se sei governo questo, nel lungo periodo, non gioca a tuo favore. Probabilmente ci si accorgerà che ci sono troppi irregolari: Salvini non potrà dire che con lui al governo è aumentato il crimine. È difficile da raccontare in campagna elettorale.

In campagna elettorale, nonostante ne è sempre stata messa in chiaro la difficoltà, un tema era stato anche quello delle espulsioni. Mancano gli accordi con i Paesi di provenienza.

Nelle nostre stime si è già previsto che il governo molto probabilmente non riuscirà ad aumentare i rimpatri. Le espulsioni sono un decreto, il foglio di via. Ma da lì al fatto che la persona abbandoni il Paese ce ne passa. È quasi impossibile immaginare di rimpatriare cinquecentomila persone. I dati parlano, a fine novembre, di un numero di rimpatri fatti da questo governo del sei per cento più basso rispetto all’anno precedente. Quindi non solo non è facile, ma ci sono dei passi indietro. E con queste cifre ci vorrebbe un secolo per rimpatriare tutti: svuotare il mare con un cucchiaino.

In quel periodo c’erano le visite in Libia di Minniti. Salvini ha modo suo ha fatto alcuni viaggi.

Il problema, lì, è di comunicazione. Se si va in un posto e si annuncia qualcosa prima ancora di essere riusciti a portarla a casa diplomaticamente, si torna indietro. Salvini è andato in Tunisia dicendo che si dovevano aumentare i rimpatri, settimane dopo il governo tunisino ha detto che non se ne parlava. Perché a cose non fatte, il governo non le aveva ancora annunciate alle proprie popolazioni. E quindi si trovano costretti a negare. È successo anche a luglio in Libia. Salvini ha detto che si sarebbero dovute fare le cosiddette piattaforme regionali, permettendo di salvare migranti e portarli indietro. Appena annunciato, dopo poche ore il ministro degli Esteri libico disse: assolutamente no, perché un certo tipo di annunci costituiscono un vulnus alla loro sovranità.

Quali sono i casi in cui funzionano?

L’accordo con la Tunisia è l’unico che funziona veramente, e chiedere di aumentare i rimpatri da quaranta a ottanta alla settimana va oltre le possibilità stesse della Tunisia, un Paese comunque in crisi. Mentre su altri Paesi che non fanno abbastanza, non si insiste. Paesi, come alcuni dell’Africa sub-sahariana, dove rispetto al numero di persone che si potrebbero rimpatriare siamo fermi tra lo zero e il cinque per cento.

Paesi dove quindi si potrebbe fare molto di più.

Moltissimo, ma il problema è che questi vogliono qualcosa in cambio. E dall’altra parte, sono tanti. Mentre eravamo abituati con persone che per venire in Italia arrivavano da pochi Paesi, Marocco, Tunisia, Egitto, Albania, con cui comunque si poteva trattare, adesso bisogna trattare con trenta Paesi diversi che vanno dal Ghana, alla Guinea, al Benin o alla Nigeria. Quindi è molto difficile parlare con molti governi, e questo non cambierà nei prossimi anni.

Qual è su questo l’approccio del governo?

Si continuerà a lavorare nelle retrovie, ma il tipo di accordi che si riuscirà a fare sarà sempre per incrementi piccoli. Nel 2018 ne abbiamo fatti più o meno la stessa cifra dell’anno precedente, e non si può pensare di aumentarli in gran misura. E soprattutto bisogna salvaguardare quelli che già ci sono. Anche perché ampliarli a dismisura è una cosa del tutto non fattibile.

Tornando in Italia, Salvini ha risposto ai sindaci spiegando che non possono non applicare il Decreto sicurezza, e che ne potrebbero rispondere legalmente. Quali sono gli spazi di manovra che hanno gli enti locali?

Su questo Salvini ha assolutamente ragione. Non si può disapplicare una legge dello Stato senza pensare di andare incontro alle conseguenze. Sul tema dell’integrazione, ci sono delle realtà che ampliano i margini di diritti, laddove però si può e ci sono delle zone grigie. Faccio un esempio: il diritto alle cure mediche, per fortuna, in Italia è riconosciuto a tutti, anche alle persone non regolari, per quanto riguarda primo soccorso ed emergenza. In altri Paesi non è riconosciuto, e ci sono alcune città che stiracchiano la norma con una legge comunale che permette alle persone di accedere ai servizi, perché non c’è un esplicito divieto. In questo caso invece il divieto esplicito c’è: se non si applicano le leggi nazionali si va incontro a possibili ricorsi al Tar, agendo per via amministrative per la risoluzione di problema tra Stato e enti locali.

Come se ne esce?

La questione è politica, più che giuridica: il messaggio che si vuole dare, da parte di questi sindaci, è che la situazione che si sta creando è insostenibile. Maggiori irregolari aumentano anche i rischi, è quello che dicono. Ma sicuramente andranno incontro a sentenze giuridiche nel caso non applichino il decreto. In questo caso non si possono più stiracchiare le leggi, che dicono una cosa diversa. Loro hanno tutto il diritto politico di fare battaglia, ma queste si fanno cercando di cambiarle le leggi. Disapplicarle perché non si è d’accordo potrà anche starci dal punto di vista politico, ma da quello giuridico ci saranno delle conseguenze.

Salvini ha anche aggiunto che i sindaci dovranno rinunciare a fondi e poteri straordinari previsti nel decreto.

Sulla questione dei fondi, il governo non è che può dire che se non si applica una parte del decreto, lo Stato non eroga ciò che è previsto. Al contrario, potrà dire: lo Stato vi fa causa. Una volta che si è in una causa, deciderà il tribunale. Mentre loro guadagnano tempo e ne fanno un simbolo. Anci negli ultimi anni si è spesa molto sul tema dello Sprar, incredibilmente la stessa Lega lo diceva rispetto all’accoglienza in massa, e si diceva che al rischio di lucrarci sopra sarebbe stato meglio fare tutti i controlli di chi eroga servizi, e lo Sprar lo consente meglio in quanto si tratta di piccole associazioni. Ma se è vero che ci saranno conseguenze giuridiche, credo che i sindaci se le aspettino: la loro azione è esplicita, e non è lo stesso caso di Riace, dove c’è stata l’autodenuncia di Mimmo Lucano. Qui i sindaci lo dicono esplicitamente.

Più che il modello Lucano, è diventato quindi il modello Pannella, quello della disobbedienza civile. Con la differenza che Pannella, a volte, in galera ci andava.

Esattamente, ma con la differenza che non sei un singolo, ma una parte dello Stato. Quindi con tutte le conseguenze che questo comporta. Dal punto di vista politico hai più possibilità di avere successo, e dall’altra parte hai più protezione rispetto al singolo, perché la questione è tra organi dello Stato, e un tribunale deciderà quando e come andrà applicato il decreto.

La conseguenza peggiore quale potrebbe essere?

Che ci sarà una sentenza in cui si dice che ha ragione lo Stato e al massimo il Comune dovrà risarcire lo Stato, quindi con un travaso di fondi, e che in ogni caso dovrà applicare la legge, perché il Comune non ha alcun mezzo giuridico per non applicarla. Il Comune non potrà fare più documenti, e tutte le pronunce non saranno valide. A meno che non si vada fuori dallo Stato di diritto. Ma è un problema politico. Da quello giuridico i sindaci non possono che aspettarsi conseguenze, e penso che se le aspettino.

Antonio Di Pietro e Leoluca Orlando (2008)

Decreto Salvini: i risvolti saranno giuridici, ma la questione è politica. Parla Villa (Ispi)

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