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La crisi venezuelana sta mettendo in evidenza alcuni aspetti particolarmente interessanti in seno alla politica statunitense. Innanzitutto, è ravvisabile un parziale cambio di rotta della presidenza Trump in riferimento alla politica rivolta all’America Latina. Fino ad oggi, l’attuale presidente americano aveva tendenzialmente ignorato il Sud America, occupandosene al massimo in chiave critica o addirittura difensiva (si pensi solo al muro al confine con il Messico o alla carovana dei migranti honduregni). Un disinteresse profondo che rompeva una lunga tradizione di politica estera statunitense che – da Eisenhower a Obama – ha sempre cercato (pur con modalità eterogenee) di salvaguardare la propria influenza in Sud America in termini geopolitici e commerciali.

Ora, l’affare Maduro ha invece portato Trump ad interessarsi direttamente della regione, determinando forse una svolta nel suo approccio all’intera area. D’altronde, è possibile che tra gli obiettivi del presidente americano ci sia quello di ridimensionare l’influenza politica ed economica cinese in quei territori. Non solo Pechino teme che un cambio di regime a Caracas possa mettere a repentaglio gli ingenti crediti che vanta con il Venezuela. Ma adesso la Repubblica Popolare teme di perdere terreno anche in Brasile, dove il nuovo presidente Jair Bolsonaro ha più volte dichiarato di voler rafforzare i propri legami con Washington.

Eppure, nonostante la Casa Bianca stia esprimendo sul Venezuela una linea tutto sommato unitaria, è impossibile non scorgere alcune sensibilità differenti al suo interno. Da una parte troviamo i falchi che, a partire dal segretario di Stato Mike Pompeo e dal National Security Advisor John Bolton, non è un mistero puntino a un cambio di regime attraverso un intervento militare diretto. Addirittura Bolton, qualche giorno fa, ha affermato che Maduro dovrebbe finire nel carcere di Guantanamo. Dall’altra parte, abbiamo invece Trump che – pur avendo garantito aiuti e appoggio politico a Guaidò – non sembra, almeno al momento, troppo propenso ad inviare truppe per intervenire nella crisi. Bisognerà capire se questa tendenza parzialmente isolazionista resisterà o verrà travolta dalle ali più interventiste dell’amministrazione.

Del resto, la postura più aggressiva del presidente può forse anche spiegarsi con ragioni legate alla politica interna: soprattutto alle dinamiche elettorali in vista delle presidenziali del 2020. Nel suo ultimo discorso sullo stato dell’Unione, Trump ha criticato Maduro, aggiungendo che gli Stati Uniti non saranno mai una nazione socialista. Frecciata, neppure troppo velata, a quella parte del Partito Democratico che si sta spostando sempre più a sinistra, abbracciando spesso misure particolarmente radicali. Anche perché non va dimenticato che Bernie Sanders, recentemente ricandidatosi alla nomination democratica del 2020, sia solito autodefinirsi “socialista”: un elemento che molte giovani leve del partito stanno oggi imitando. È quindi chiaro che Trump voglia utilizzare la crisi venezuelana per criticare le velleità socialiste di molti esponenti democratici, puntando sulla difesa dell’economia tradizionale statunitense.

D’altronde, la questione venezuelana si sta rivelando un grattacapo fastidioso anche all’interno dello stesso Asinello. La sezione della Florida del Partito Democratico sta infatti criticando aspramente proprio Bernie Sanders che ha – al momento – rifiutato di sostenere Guaidò. Un fattore importante che se da una parte tradisce le simpatie dell’anziano senatore per Maduro, dall’altra pone i democratici centristi in un forte imbarazzo. La Florida ospita infatti un’ampia quota elettorale di venezuelani-americani assolutamente contrari all’attuale governo di Caracas: una quota che potrebbe rivelarsi preziosa alle presidenziali del 2020 e che – per il momento – risulta nettamente schierata a favore di Donald Trump.

Se quindi da una parte il presidente americano sta capitalizzando non pochi vantaggi dalla crisi venezuelana, dall’altra alcuni ostacoli geopolitici si stagliano comunque all’orizzonte. In particolare, quello che sta accadendo dalle parti di Caracas rischia di mettere una seria ipoteca sul processo di disgelo da sempre auspicato da Trump verso la Russia. Sul dossier venezuelano infatti Washington e Mosca si sono schierate su posizione antitetiche. I rapporti tra Putin e Maduro sono infatti sempre stati cordiali, senza poi dimenticare i legami – soprattutto militari – che intrattengono Mosca e Caracas. Se il Cremlino taccia gli Stati Uniti di interferenze indebite, i falchi americani anti-russi ne approfitteranno con ogni probabilità per allontanare ulteriormente Trump da Putin. Il presidente americano dovrà quindi mostrare un abile equilibrismo se vorrà tener fede al suo storico impegno di distensione con la Russia. Perché sa bene che il Venezuela potrebbe costituire un punto di non ritorno.

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Perché per Trump il Venezuela potrebbe essere un punto di non ritorno

La crisi venezuelana sta mettendo in evidenza alcuni aspetti particolarmente interessanti in seno alla politica statunitense. Innanzitutto, è ravvisabile un parziale cambio di rotta della presidenza Trump in riferimento alla politica rivolta all’America Latina. Fino ad oggi, l’attuale presidente americano aveva tendenzialmente ignorato il Sud America, occupandosene al massimo in chiave critica o addirittura difensiva (si pensi solo al muro…

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