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Torna in auge ogni qualvolta che c’è da far quadrare i conti. La spending review in Italia è qualcosa che va avanti almeno da otto anni e altrettante manovre, da quel governo Monti datato 2011. E il governo gialloverde non poteva essere da meno. Gli attuali viceministri all’Economia Laura Castelli (M5s) e Massimo Garavaglia (Lega) sono stati appena nominati commissari straordinari del governo per la spending review, proprio nel corso del Consiglio dei ministri che si è svolto a Reggio Calabria ieri pomeriggio. Un incarico che in passato è stato ricoperto da personalità come Enrico Bondi, Mario Canzio, Carlo Cottarelli e Yoram Gutgeld.

Ma è proprio questo il punto: nessuno è mai riuscito realmente ad apportare tagli di spesa importanti, in grado di incidere verticalmente sul bilancio pubblico. La missione affidata ai due viceministri, arriva in un momento che più delicato non poteva essere. Il governo ha un bisogno urgente di reperire risorse con cui, per esempio, disinnescare l’Iva per il 2020 (23 miliardi) oppure per evitare di finanziare le misure della prossima manovra ricorrendo al deficit. E poi c’è da dire che le aspettative sono alte, visto che il contratto su cui poggia il governo parla, almeno nella sua versione originaria, di tagli alla spesa improduttiva per 30 miliardi.

Obiettivo che per la verità sembra essere stato già disatteso dal momento che, dalle ultime indiscrezioni, l’esecutivo sembra aver programmato per la prossima manovra tagli di spesa per 8 miliardi da spalmare su di un triennio, poco più di 2 miliardi e mezzo all’anno. Basta fare un rapido calcolo per accorgersi della differenza tra fabbisogno e quantità di risorse ottenibili a mezzo spending review. Le clausole di salvaguardia valgono 23 miliardi nel 2020 (che il premier Giuseppe Conte vorrebbe ottenere, almeno in parte, attraverso il riordino delle agevolazioni fiscali), mentre il regime di tassazione sostitutivo per le famiglie con reddito fino a 50 mila euro l’anno (la flat tax) ha un impatto stimato di almeno 12 miliardi. Dunque la provvista necessaria per centrare entrambi questi traguardi si aggira sui 35 miliardi, una cifra praticamente impossibile da mettere insieme senza tornare a modificare il percorso di miglioramento delle finanze pubbliche, avvalendosi di ulteriori spazi di deficit. E nemmeno con tutta la spending review possibile immaginabile.

Bisogna fare però un’altra considerazione per capire la delicatezza della missione affidata ai due vice di Giovanni Tria a Via XX Settembre. E cioè il fatto che nei prossimi anni la spesa pubblica aumenterà invece di diminuire (nel computo vanno messe anche le risorse con cui dare una spinta a Quota 100 e reddito di cittadinanza). I calcoli sono quelli del Servizio Bilancio di Camera e Senato, diffusi a inizio anno. A sgorgare dai rubinetti è soprattutto la spesa corrente con ben 40,9 miliardi di nuove uscite fino al 2021, di cui 9,7 miliardi nel 2019. Per la spesa sono previsti incrementi netti per circa 7,6 miliardi nel 2019, dovuti a un aumento di 9,7 miliardi della parte corrente e da una riduzione per circa 2 miliardi delle uscite in conto capitale, che dovrebbero concorrere a spingere gli investimenti. Nel 2020 si sale a 22,7 miliardi (+16,5 miliardi di spesa corrente e +6,2 miliardi di parte capitale) e nel 2021 a 21 miliardi, di cui 13,9 miliardi riguardano la parte corrente e 7,1 miliardi la spesa in conto capitale. Uscite che i tagli approntati dal Mef dovranno in qualche modo compensare. Insomma, il lavoro per i commissari non mancherà.

 

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