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“Continuiamo a vedere la crisi libica in un’ottica distorta, come se fossimo ancora noi occidentali a imprimere la direzione di marcia. Noi contiamo molto poco, i veri protagonisti sono gli Emirati Arabi e l’Egitto come sponsor di Haftar, con dietro l’Arabia Saudita a minor visibilità”.

Questa la diagnosi del direttore di Analisi Difesa Gianandrea Gaiani, firma de Il Mattino, Il Messaggero, Libero e autore de “Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane” e di “Immigrazione: tutto quello che dovremmo sapere” che affida a Formiche.net la sua visione sulla mossa dell’uomo forte della Cirenaica e sulle mosse della comunità internazionale in caso di nuovi leader in campo.

Il generale Khalifa Haftar è un nemico dell’Italia?

No. Lo dimostra il fatto che l’Italia con lui ha ottimi rapporti, pur riconoscendo come tutto il mondo il presidente al-Serraj, “creato” dall’Onu a Tripoli. Va ricordato che nella nostra missione militare sanitaria a Misurata, che ha curato i feriti dopo la battaglia di Sirte contro l’Isis, noi abbiamo curato (conducendole in Italia) anche i feriti di Haftar impegnati contro i jihadisti a Bengasi. Roma ha buoni rapporti con entrambe le fazioni libiche.

Come legge la sua avanzata verso Tripoli?

Anche dopo una sua vittoria-lampo a Tripoli, che considero improbabile, Haftar non potrebbe essere considerato una minaccia, perché nei territori che controlla, come la Cirenaica, non c’è l’emergenza criminalità che esiste invece in Tripolitania. E soprattutto dalle coste che controlla Haftar non salpano gommoni diretti in Italia: significa che offre delle garanzie importanti sul piano della sicurezza. Poi è chiaro che noi auspichiamo, così come fa tutta l’Europa, una soluzione politica che non lasci strascichi militari.

La guerra civile in Libia potrebbe rimettere in pista l’Isis?

L’Isis non è mai uscito di pista: dopo la sconfitta anche in Libia quando ha affrontato una battaglia convenzionale a Sirte discendendo dalle posizioni contro un’offensiva militare, alla fine ha perso, pur dopo una forte e coraggiosa resistenza dove ha mostrato una notevole capacità di combattimento. Da quella sconfitta di due anni fa però non è scomparso, talvolta colpisce Misurata con raid e attentati, si è riorganizzando nel sud e tenta di riorganizzarsi sfruttando quei traffici illeciti di cui la Libia è ricca: esseri umani, droga e armi.

Una stabilizzazione della Libia quale effetto avrebbe?

Renderebbe più difficile all’Isis questo lavoro. Ma non parlerei in questa fase di guerra civile: ciò a cui stiamo assistendo a Tripoli non si può neanche definire una grande battaglia, perché in cinque giorni si contano un centinaio di morti e poco più di duecento feriti. Numeri che può fare in un giorno solo un kamikaze talebano a Kabul. Per cui rivedrei i fatti di Tripoli nella loro dimensione militare come un voler mostrar bandiera. Haftar mostra che può minacciare la capitale e al contempo le altre forze mostrano che possono rispondere. Magari è solo un tentativo di riposizionamento per arrivare a colloqui e negoziati su posizioni diverse. Ma la presenza dell’Isis è molto più forte altrove.

Dove?

Nel Sinai egiziano più che in Libia, un territorio molto più piccolo in uno Stato dove però c’è un governo forte e un esercito altrettanto forte. Tra l’altro al confine Israele sostiene Il Cairo nel combattere i terroristi. Per cui tornando a Tripoli non enfatizzerei né la battaglia in corso né la minaccia terroristica.

Il vuoto di un potere che faccia da raccordo con le tribù può essere colmato con una trattativa internazionale che non compia gli stessi errori dei precedenti inviati Onu?

Continuiamo a vedere la crisi libica in un’ottica distorta, come se fossimo ancora noi occidentali a imprimere la direzione di marcia. Noi contiamo molto poco, i veri protagonisti di questa crisi tripolina sono gli Emirati Arabi e l’Egitto come sponsor di Haftar, con dietro l’Arabia Saudita a minor visibilità perché non coinvolta direttamente avendo già problemi nello Yemen. Sono contrapposti all’asse Turchia-Qatar, da sempre fiancheggiatori della fratellanza musulmana. Per cui nella partita gli attori principali sono arabi e islamici: la vedo come una sorta di continuazione di quelle primavere arabe che nel 2011 presero piede anche grazie agli appoggi occidentali di Obama e Sarkozy. Non dimentichiamo che alla campagna militare contro Gheddafi parteciparono aerei qatarioti ed emiratini schierati in Italia. Per cui non siamo noi europei a determinare gli sviluppi libici, nemmeno l’Onu.

Salvini ha twittato: “Se ci fossero interessi economici dietro al caos in Libia, se la Francia avesse bloccato un’iniziativa europea per portare la Pace, se fosse vero…”. Quanta responsabilità vede nelle politiche francesi?

Nel 2011 ci fu una responsabilità francese, britannica e americana: ognuno aveva i propri interessi. Non a caso quello di togliere all’Italia una fetta di business. Una guerra sciagurata combattuta sotto le bandiere Nato. Oggi sono diversi gli attori presenti nel paese: è inevitabile, anche l’Italia lo fa. Haftar ha già ricevuto in passato un appoggio militare importante francese, oggi ci sono voci simili, con la conferma del supporto di Parigi al Generale che viene dallo stesso Serraj. Noi europei dovremmo riuscire ad avere una voce comune, ma non credo sarà possibile.

Perché?

Perché anche i francesi come gli italiani hanno interessi diretti in Libia. Negli ultimi tempi i rapporti tra Roma e Parigi sono migliorati, ma se ci coordinassimo anche sulla questione libica sarebbe un bel successo. Fino ad oggi la Francia ha negato di aver sostenuto il sostegno ad Haftar. Se dovessero emergere delle responsabilità sarebbe grave per la stabilità anche europea.

Come se ne esce?

Tutti devono sostenere al-Serraj, uomo dell’Onu: questo il gioco occidentale. Ma tutti sono consapevoli che al-Serraj è debole perché non ha un suo esercito. E tutti al contempo si preparano a convivere con una sua eventuale caduta, con un nuovo interlocutore privilegiato che a quel punto in Tripolitania diventerebbe Misurata.

twitter@FDepalo

 

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