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Il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha alzato un ordine scritto chiedendo l’evacuazione rapida del personale del consolato di Bassora, Iraq meridionale, seconda città del paese. Il motivo è che lo staff diplomatico nelle scorse settimane è finito più volte sotto le minacce, anche con fuoco indiretto contro l’edificio, di milizie filo-iraniane. Pompeo dice che Washington riterrà Teheran responsabile di qualsiasi incidente possa coinvolgere americani e miliziani sciiti su suolo iracheno: “Ho chiarito che l’Iran dovrebbe capire che gli Stati Uniti risponderanno prontamente e appropriatamente a qualsiasi attacco del genere”.

Il dipartimento di Stato ha alzato anche un avvertimento “no-go” per i cittadini americani, ossia la richiesta di non recarsi in Iraq se non per strette necessità, visto che ci sono “milizie settarie anti-americane che possono anche minacciare i cittadini statunitensi e le società occidentali in tutto l’Iraq”.

Gli uomini di queste milizie sono stati incaricati dagli iraniani di proteggere il paese dallo Stato islamico e, per un periodo di tempo, quando tre o quattro anni fa l’avanzata baghdadista era al suo apice, hanno combattuto fiancheggiati in modo discreto e indirettamente coordinato con gli americani, che davano sostegno all’esercito regolare iracheno contro il Califfato. Ma i miliziani sciiti filo-iraniani, in Iraq come altrove, sono antisemiti nemici giurati degli Stati Uniti (“Il grande Satana”) e dell’Occidente, e sono coloro che durante l’occupazione della Guerra d’Iraq hanno attaccato più volte le forze occidentali con tecniche esattamente identiche a quelle dell’insurrezione sunnita guidata dall’Aqi, la filiale qaedista irachena che poi si è evoluta e trasformata nell’Isis.

Sono inoltre quelle stesse milizie che gli ayatollah hanno spostato in Siria per difendere il regime alawita (una setta sciita) di Bashar el Assad; uomini che, prendendo ordini da Teheran, hanno massacrato i ribelli, e ingaggiato pure scontri in alcune aree siriane più strategiche con i corpi speciali americani inviati invece a combattere lo Stato islamico. È il caso per esempio di quanto successo mesi fa ad al Tanf, avamposto militare al confine tra Iraq e Siria, occupato dagli americani che da lì dirigono le operazioni lungo il Corridoio dell’Eufrate, ultima aree di presenza baghdadista sul territorio siriano, con un occhio a obiettivi strategici più ampi.

La presenza delle milizie in Iraq (e Siria) è un piano progettato e attuato da Qassem Suleimani, generale che guida le Quds Force, unità d’élite tattica e strategica dei Guardiani della Rivoluzione (il corpo militare sotto il controllo della guida teocratica iraniana), che Pompeo ha apertamente incolpato per quel che succede a Bassora. Come nel caso di altre vicende (si vedrà), gli iraniani hanno cercato di sfruttare il contesto caotico del conflitto siriano per smobilitare una grande quantità di guerriglieri, ideologicamente controllabili, e creare un substrato socio-politico dal peso simil-mafioso favorevole in Iraq, dove le milizie sono l’ala armata di partiti politici che partecipano regolarmente alle elezioni. Ma non solo, anche in Siria, e in Afghanistan, e lo hanno fatto in Libano dove uno di questi gruppi controllati, il più importante di tutti, Hezbollah, è un partito politico con una grande influenza nel paese – più o meno uno stato nello stato – addirittura in grado di spostare decisioni sull’attuale presidente.

È questo uno dei piani di Teheran detestati da Washington, e dai suoi alleati regionali. “Ho un messaggio per i tiranni di Teheran: Israele sa cosa state facendo”, ha detto un paio di giorni fa Benjamin Netanyahu dal Palazzo di Vetro dell’Onu. Il premier israeliano spiegava che le sue intelligence hanno individuato “uno stabilimento atomico segreto” nei pressi della capitale iraniana, dove sarebbe tenuto nascosto materiale fissile e tecnologia nucleare per portare avanti in via clandestina il programma atomico degli ayatollah.

Netanyahu davanti alla platea della Nazioni Unite ha confermato pubblicamente che il suo governo non mollerà il dossier-Iran sulla Siria, che per Israele è un territorio di caccia in cui colpire gli iraniani, perché ritiene che stiano usando la copertura del conflitto civile per rinforzare, anche con armi tecnologicamente sofisticate, i gruppi di miliziani sciiti che loro stessi hanno spostato da tutta la regione per difendere il regime. In particolare gli israeliani ritengono che l’Iran stia armando, tramiti scali siriani, Hezbollah. Le intelligence di Gerusalemme ritengono che l’Iran, attraverso le sue forze proxy (le milizie) stia trasformando la Siria in una piattaforma avanzata per attaccare Israele, e per questo non perdono occasione per colpire certi passaggi di armamenti; sono stati oltre 200 i raid, quasi mai dichiarati, di jet israeliani in Siria dal 2012-2013 a oggi.

Contrastare l’Iran in Siria è una dimensione strategico-militare per Israele, che collima perfettamente con quella americana: Trump dall’Onu ha minacciato anch’egli il sistema teocratico che da Teheran muove certe politiche regionali, e nelle ultime settimane ci sono diversi segnali secondo cui la presenza militare americana in Siria e Iraq – finora finalizzata alla lotta allo Stato islamico – possa avere uno shift di obiettivi diventando una forma di dissuasione nei confronti delle intenzioni iraniane, anche sotto la forma di una forte pressione politica. L’annuncio dell’evacuazione di un consolato statunitense in Iraq è un genere di pressione politica non di secondo ordine perché mette gli iraniani davanti a responsabilità internazionali piuttosto importanti. “Se tu ci intralci, a noi e ai nostri alleati o ai nostri partner, se tu danneggi i nostri cittadini, se continui a mentire, imbrogliare e ingannare, sì, ci sarà davvero l’inferno da pagare”, ha detto dall’Onu il consigliere per la Sicurezza nazionale americana, John Bolton.

Invece americani e israeliani accusano Bruxelles di voler mantenere con gli iraniani una posizione troppo morbida, sia sul fronte delle attività maligne regionali come l’attivazione in massa delle milizie politiche, sia su quello dell’accordo sul nucleare – da cui Donald Trump ha tirato fuori gli Stati Uniti sostenendo non solo quello che ha ribadito recentemente Netanyahu, ma anche che in generale, l’Iran dopo l’accordo non ha modificato lo spirito con cui diffonde divisione per giocare influenza nel Medio Oriente.

Martedì, per esempio, Federica Mogherini, Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione Europea, ha annunciato che l’Ue ha in mente un piano per mantenere vivo l’accordo sul nucleare con l’Iran. Quello di cui parla Mog, non è il mantenimento formale – che c’è già, perché il ritiro americano non lo preclude legalmente – ma quello legato alla sua esistenza effettiva.

Ad agosto, l’amministrazione americana aveva rimesso in funzione alcune delle sanzioni che l’accordo aveva precedentemente alzato – tra queste il divieto per l’Iran di usare il dollaro americano per le transazioni – e ciò significava che le aziende europee in affari con gli iraniani sarebbero andate incontro a rischi diretti e secondari. Mogherini ha parlato di un nuovo sistema di pagamento, che però ancora deve essere definito nei dettagli, col quale mantenere i rapporti commerciali con l’Iran e bypassare le sanzioni statunitensi.

Dovrebbe trattarsi di un modo per evitare all’Iran di dipendere dal dollaro, facilitando le aziende che fanno affari con Teheran. Non è il primo di questo genere di provvedimenti presi dall’Ue, che insieme alla Cina e alla Russia sta cercando il modo di salvaguardare non solo l’intesa ma il business che il Nuke Deal ha riaperto. Nel farlo Bruxelles va apertamente contro una linea strategica americana: una posizione che Trump detesta perché non coincide per niente col suo concetto di partnership e cooperazione (o lealtà e fedeltà).

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