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Il tema dell’autonomia differenziata è sicuramente al centro di una grande attenzione, sia politica, che mediatica. Molteplici sono le opinioni, a favore o a contrasto del testo di legge, così come molte sono le vicendevoli polemiche, ben rappresentate da interpreti autorevoli o da polemisti improvvisati. Anche per un tema così importante, tuttavia, il gioco delle parti che di frequente si reitera nel nostro dibattito pubblico (o sarebbe più opportuno chiamarlo battibecco?) ha portato a una serie di semplificazioni che sarebbe necessario scongiurare.

Eppure, a quanto pare, quasi tutte le parti in gioco hanno un certo interesse a trattare una vicenda così complessa in modo semplicistico. Ne giova il governo, che ambisce ad introdurre, all’interno del proprio mandato, la propria visione di Paese. Così come sono interessati a semplificare tale tematica anche coloro che a tale visione si oppongono, perché sentono l’esigenza di coinvolgere i cittadini su una tematica cara, o perché ambiscono a trarre dalle polemiche un po’ di consenso, o di visibilità. Ne hanno interesse i giornali, che attraverso i titoli acchiappa-clic puntano ad un incremento dei ricavi dalle inserzioni pubblicitarie.

Eppure, in questo variegato parterre di interessi, chi non ha affatto bisogno di trattare questo tema con leggerezza o con agonismo da stadio è la nostra democrazia, intesa in quel senso obsoleto che vorrebbe un qualsivoglia collegamento tra i cittadini e chi li governa. Anche se è ormai tardi: perché ad aver trattato con sufficienza un tema così radicale per l’organizzazione della vita sociale del nostro Paese è stata l’intera classe politica, e il successivo polverone mediatico che tanto occupa le pagine dei giornali e i social, è soltanto una inevitabile conseguenza di tale leggerezza.

Maggiore serietà istituzionale sarebbe stata necessaria prima della proposta di legge, con la previsione di un percorso di condivisione delle istanze con i cittadini, formando la società civile, lasciando che nell’affrontare una così importante riorganizzazione del funzionamento del Paese, i cittadini potessero partecipare attivamente alla vita pubblica e politica, informarsi, e assumere, per una volta, una decisione realmente informata. Analogamente, una maggiore serietà istituzionale avrebbe condotto ad una formulazione più articolata della visione di Paese che quel testo di legge intende promuovere, perché allo stato attuale l’unica ambizione che realmente esprime è quella dell’autonomia differenziata, trasformando un mezzo (l’autonomia) in un fine. Oggi, a regole del gioco già scritte, è naturale che ci si concentri sui dettagli: prima i finanziamenti o i Lep? Quali modalità di ridistribuzione delle risorse?

Aver affrontato questo tema in modo strutturato, invece, avrebbe potuto sollevare un discorso molto più ampio, ponendo dunque quesiti che avrebbero potuto soltanto giovare la formulazione della legge. Una riflessione più strutturata, ad esempio, avrebbe potuto portare a valutare, stante la nostra recente tradizione legislativa sul tema, la reale efficacia del Lep come indicatore. Perché scegliere il livello essenziale di prestazione e non un obiettivo di risultato? Quali modifiche avrebbe comportato? La complicazione del quotidiano dirotta l’attenzione verso l’ordinaria amministrazione, ma una riflessione più strutturata avrebbe potuto restituire un Paese più solido, e forse più politicamente attivo. In ambito culturale, ad esempio, è realmente corretto definire una potenziale politica sulla base dei Livelli Essenziali delle Prestazioni? È realmente sufficiente, ad esempio, stabilire che un museo deve essere aperto almeno 100 giorni l’anno? Ed è realmente efficace stabilire che ci debbano essere almeno 30 musei di arte contemporanea in una provincia?

Riformulando: è più corretto limitare l’attenzione a ciò che il settore pubblico eroga, o ai risultati che tale settore pubblico deve perseguire? Un livello essenziale delle prestazioni “elevato”, è davvero un’azione volta ad incrementare il benessere del Paese o è un potenziale rischio di spreco di risorse pubbliche ed incremento del debito? I musei, ad esempio, sono stati sempre più oggetto di lodi “quantitative”: si celebra che in occasione delle domeniche gratuite ci sia un importante afflusso di visitatori, si giubila se i visitatori internazionali sono maggiori rispetto all’anno precedente. Ma è davvero corretto tutto ciò? Molti degli osservatori “culturali” hanno concentrato la propria attenzione sulle possibili derive regionaliste in ambito culturale, o sulle potenziali estensioni delle zone grigie.

Aspetti che hanno un’indiscussa rilevanza: se la distribuzione delle risorse deve avvenire sulla base dei Lep, ed è nei fatti impossibile determinare una concreta “domanda culturale” da porre a base della congruità degli investimenti pubblici previsti, allora la possibilità che la cultura torni ad essere una sorta di cuscinetto sociale può risultare effettivamente critica. Tuttavia, dinamiche di questo tipo risponderebbero da un lato a concrete istanze di natura territoriale (condizione che in fondo è alla base del concetto di autonomia differenziata), o a distorsioni che, inficiando l’efficacia e l’efficienza del sistema regionale, dovrebbero essere tendenzialmente eliminate nel medio periodo.

Malgrado siano molti gli osservatori che, in modo autorevole, hanno indicato come migliorabile il testo di legge, le problematiche che tale testo riflette sono ben più ampie. Perché il problema è di natura culturale prima ancora che tecnica: al centro del dibattito è infatti la questione su “quante risorse servano” e “quante risorse vengano effettivamente distribuite” per poter garantire che le Regioni possano presentare ai propri cittadini dei servizi omogenei. La verità è che l’Italia, includendo nel Paese anche il ruolo dei cittadini, avrebbe bisogno di comprendere quali ambizioni intenda perseguire.

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