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Mentre aumentano le espulsioni di soggetti a rischio per la sicurezza nazionale, si presta maggiore attenzione nelle scuole ai giovani più sensibili alle simpatie jihadiste. La lotta all’Isis è tutt’altro che finita, anzi le formazioni jihadiste si stanno riorganizzando in Africa e in Asia. Andrea Manciulli, presidente di Europa Atlantica e senior fellow dell’Ispi, uno dei maggiori esperti di terrorismo, fa un’analisi preoccupata: “Stiamo assistendo alla stessa strategia enunciata da Osama bin Laden nel 2004: aprire più fronti in varie parti del mondo in modo da rendere molto difficile all’Occidente di combattere efficacemente. Il vero tema che abbiamo nel Maghreb e in Africa è l’industria dei traffici che sta sostituendo l’economia reale”.

Nelle scuole italiane ci sono segnali su simpatie jihadiste maggiori rispetto al passato?

Tutti gli analisti hanno messo in luce un macrofenomeno: oltre ai militanti conclamati, dopo l’uso del jihad mediatico avviato in larga scala dall’Isis sta nascendo un fenomeno di giovani simpatizzanti molto precoci. L’età media dei militanti che andavano in Afghanistan ai tempi di al Qaeda era attorno ai 30 anni mentre negli ultimi 3-4 anni la fascia è tra i 14 e i 25 anni. Si tratta di giovani che non hanno una condotta criminale, ma simpatizzano con il jihadismo e possono passare all’atto repentinamente. Questo è particolarmente apprezzabile nelle scuole in Europa e in tutto l’Occidente, quindi interessa anche l’Italia. Avevamo un fenomeno meno forte di militanti veri e propri, ma la rete non ha confini e non mi sorprende che ci siano segnali nelle scuole.

Lei e Stefano Dambruoso nella scorsa legislatura avevate presentato una legge sulla deradicalizzazione, approvata solo alla Camera. Tra l’altro, dedicavate molta attenzione al mondo della scuola.

Si investiva sulla formazione degli insegnanti per scoprire segnali di radicalizzazione precoce. Era una legge che andava di pari passo con il decreto sul terrorismo del 2015 di cui eravamo relatori Dambruoso e io, norme preparate d’intesa con le forze dell’ordine e con i servizi segreti, perché credevamo e crediamo che la prevenzione sia il vero elemento in più per sconfiggere il terrorismo. Oggi servirebbe una nuova iniziativa perché il tema della prevenzione non è né di destra né di sinistra, così come non è che la prevenzione è di sinistra e la repressione di destra. Servono entrambe, anzi senza la prevenzione rischiano di essere inefficaci i tentativi di sconfiggere le forme giovanili.

C’è questa sensibilità nell’attuale Parlamento?

Spero che ci sia, la lotta al terrorismo è un tema di interesse nazionale perché è in gioco la sicurezza nazionale, non c’è destra o sinistra.

Siamo arrivati a 344 espulsi per motivi di sicurezza nazionale dal gennaio 2015, 107 quest’anno, e l’ultimo è un tunisino già espulso e intercettato recentemente su un barchino a Mazara del Vallo. C’è un crescente problema dal Maghreb?

Il vero tema che abbiamo nel Maghreb e in Africa è l’industria dei traffici che sta sostituendo l’economia reale, anche in Libia dove l’economia reale potrebbe avere una sua forza. Abbiamo già conosciuto questo elemento in Afghanistan, dove il traffico di oppio è la prima forma di economia che fa vivere i talebani. Si può fermare chi si vuole, ma se non si elimina l’infezione… Il consolidamento dell’economia illegale è pericolosissimo e rende più difficile anche il contrasto all’immigrazione e i rapporti con quei Paesi: se hai una postura non dialogante con quei Paesi che vedono crescere sul proprio territorio un’economia illegale che li delegittima e nello stesso tempo si vedono chiudere le porte dal mondo occidentale, non te li fai amici e non instauri una proficua collaborazione senza la quale è impossibile affrontare il tema dell’insicurezza del Mediterraneo.

Dell’Isis non si parla da parecchio sulla grande stampa, ma sembra che si stia rinforzando. Vladimir Putin ha detto che ci sarebbero 700 ostaggi americani ed europei in Siria. Come legge questa dichiarazione?

Putin ha le informazioni. In alcune repubbliche asiatiche ex sovietiche c’è un fenomeno molto forte di radicalizzazione e di creazione di militanti e di foreign fighter. I servizi russi sanno che questo fenomeno non è morto e Putin ha voluto in questo modo riattirare l’attenzione su questo tema, attenzione che bisogna avere. La storia ci dice che tra l’11 settembre e l’arrivo del Califfato c’è stato il silenzio della grande riorganizzazione, ciò che sta accadendo adesso nei movimenti jihadisti. In Siria non sono stati sconfitti del tutto, ma si sono dispersi così come fecero i servizi segreti e le forze speciali di Saddam Hussein dopo l’invasione dell’Iraq. E’ più difficile trovarli e aspettano il momento più opportuno. Nella lotta al terrorismo è stato fatto il grosso, ma non tutto.

Molti foreign fighter sono ormai in Afghanistan.

C’è un grande spostamento verso l’Asia e soprattutto in Afghanistan passando per l’Iran. Occhio all’Afghanistan che rischia di tornare tristemente in auge come piattaforma logistica di un irradiamento asiatico di cui abbiamo i sintomi in Bangladesh, Indonesia, Filippine, repubbliche ex sovietiche asiatiche. Al Qaeda ha da poco costituito una cellula in India. Nel 2004 Osama bin Laden disse che la vera tattica per costruire un califfato globale era creare tanti fronti cosicché anche per l’Occidente e per la Nato sarebbe stato difficile fronteggiarli. Oggi c’è una strategia che sta applicando questa teoria e che dobbiamo guardare con preoccupazione.

Ma vicino a casa nostra il grande problema restano l’Africa e il Sahel.

La teoria degli spazi geopolitici e sociali vuoti riguarda anche l’Africa dove il jihadismo non si è mai indebolito, anzi nel Sahel Aqmi (al Qaeda nel Maghreb islamico), Ansar al din (tuareg), al Mourabitoun e il Fronte di liberazione della Macina hanno giurato fedeltà ad Qaeda. Si tratta di realtà anche legate alle dimensioni tribali e dei nomadi che stanno creando un fenomeno di endemizzazione del terrorismo nel Sahel e spesso sono fiancheggiatrici del traffico di esseri umani. Il terrorismo può anche non piacere, ma se diventa il veicolo dell’economia indotta si finisce per tollerarlo e favorirlo.

In questo momento l’Europa e l’Occidente sembrano pensare di più ad altro. E’ realistico un accordo tra gli Stati per combattere insieme il terrorismo?

Bisogna buttare ogni forma di controversia ideologica e realizzare uno sforzo comune. Viene sottovalutata la tendenza del terrorismo ad allargare i fronti e a costruire un legame transnazionale e globale. Bisogna alzare il livello dei rapporti internazionali, altrimenti si rischia davvero di arrivare tardi e di combattere male questa battaglia.

trump stato islamico, isis, al qaeda

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