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La Cina è sempre più vicina. L’esecutivo gialloverde, più dei precedenti, sembra aver inaugurato una nuova stagione di crescita delle relazioni bilaterali fra Roma e Pechino. Relazioni che, per il momento, sembrano voler puntare su un’intensificazione degli scambi commerciali. Ma quali sono i rischi domestici e internazionali, per un Paese come l’Italia, dell’entrare stabilmente nell’orbita del gigante asiatico, sempre più mosso da ambizioni globali?

L’ATTRAZIONE ECONOMICA

Per Carlo Jean, generale di Corpo d’Armata e presidente del Centro Studi di Geopolitica Economica, Roma guarda a Pechino soprattutto per una questione di carattere economico, più che per ragioni strategiche.

“L’Italia non è in condizione di incidere sugli effetti politici della contrapposizione tra Stati Uniti e Cina, come potrebbe invece fare un attore più influente come la Germania. Sta piuttosto cercando di ottenere i massimi vantaggi possibili dalla cosiddetta Belt and Road Initiative (Bri), che prevede l’espansione commerciale e geopolitica cinese attraverso la realizzazione di corridoi di trasporto via terra e via mare in tutta la massa continentale eurasiatica, anche in Europa centro-orientale, tramite l’accordo ’16+1′ che presenta consistenti investimenti, ad esempio nel porto del Pireo e nella ferrovia Belgrado-Budapest. L’Italia ha messo a disposizione alcuni suoi porti per fare del nord del Paese un hub logistico europeo per le merci che arriveranno da e partiranno per il gigante asiatico”.

I PERICOLI DA NON SOTTOVALUTARE

Questa scelta, però, commenta con un tweet Gabriele Natalizia, docente di Scienza politica e Relazioni internazionali alla Link Campus University di Roma, potrebbe rivelarsi rischiosa da diversi punti di vista, non ultimo – anche se non direttamente coinvolto – da quello strategico. “Con la Bri”, scrive, “nel breve periodo favoriamo la creazione di un canale preferenziale per far arrivare in Europa merci che mettono fuori gioco le nostre piccole e medie imprese e rafforzano la nostra interdipendenza con uno Stato con connotati totalitari. Nel medio peggioreremo i rapporti con Usa e Russia”.

LE RASSICURAZIONI DI GERACI

Chiara la risposta di Michele Geraci – sottosegretario allo Sviluppo Economico nel ministero guidato da Luigi Di Maio – reduce da un recente viaggio in Cina e a capo di una task force dedicata ai rapporti commerciali sino-italiani. “Non è stato mai detto di sostituire gli Usa con la Cina. Anzi, abbiamo spesso detto che tutto si svolge all’interno del nostro rapporto Atlantico ed Europeo”, scrive Geraci.

I TIMORI PER LA SICUREZZA NAZIONALE

Tutto lineare? Non proprio. Il problema vero, infatti, commentano molti esperti di geopolitica e di sicurezza, potrebbe porsi nel momento in cui questa collaborazione dovesse allargarsi ad asset strategici. Uno degli esempi in questo senso è la posizione preferenziale acquisita dalla compagnia di telecomunicazioni cinese Huawei nel settore 5G, la futura tecnologia per le comunicazioni mobile, che è anche una delle ragioni alla base dello scontro globale tra Stati Uniti e Cina.

Se infatti a Washington è allarme rosso – basti pensare alle dichiarazioni pubbliche del presidente Usa Donald Trump a corredo della politica di dazi nonché ai report, anche pubblici, dell’intelligence americana sullo sforzo d’influenza militare, tecnologica e geopolitica che Pechino starebbe attuando – in Italia l’approccio governativo a questo tema appare differente (il Movimento 5 Stelle, rappresentato da Luigi Di Maio e dal sindaco di Roma Virginia Raggi, ha speso parole di elogio per Pechino e il suo colosso tecnologico a un recente summit tenuto da Huawei sul 5G proprio nella Capitale).

Il tema è talmente rilevante che nei prossimi giorni la questione arriverà al Copasir, il comitato parlamentare di vigilanza sui servizi segreti che approfondirà la questione con il ministro della Difesa Elisabetta Trenta ma soprattutto con Di Maio, che guidando il Mise è il ministro che ha in mano il dossier.

OMBRE CINESI

A spiegare le ragioni di questa preoccupazione è stato a Formiche.net lo storico ed economista Giulio Sapelli. “Mentre altrove i colossi cinesi, ormai monopolisti sul piano delle infrastrutture di rete, vengono estromessi da gare pubbliche per privilegiare un controllo nazionale su questi asset strategici, noi stiamo colpevolmente trascurando un aspetto cruciale per la sicurezza nazionale”, ha commentato.
“Ritengo inoltre”, aggiunge il professore, “che si stiano sottovalutando le ripercussioni, anche economiche e geopolitiche, che un eccessivo avvicinamento a Pechino può comportare per il nostro Paese.

Gli Stati Uniti, del quale siamo alleati nella Nato e non solo, continuano ad esprimere preoccupazione per le ambizioni globali della Cina ed è nostro compito, oltre che nostro interesse diretto, considerarle in modo autonomo ma approfondito. I rapporti commerciali sono sempre i benvenuti quando portano valore e sono all’insegna della reciprocità, ma sarebbe sconsiderato non valutare l’importanza crescente che le reti – e i dati che vi transitano – avranno per la stabilità politica, la proiezione militare, la difesa e la prosperità economica di un Paese”.

Opinione, questa, condivisa anche da Germano Dottori – docente di Studi Strategici alla Luiss “Guido Carli” – che su Twitter evidenzia: “Gli investimenti cinesi adesso sono un rischio anche con Trump, che potrebbe chiedersi con chi stiamo. Senza gli Usa e con lo spread, non si va lontano”.

IL TEMA DELLE RETI

“Ci si preoccupa tanto dei device, ovvero di ciò che può accadere con l’utilizzo di smartphone, tablet o pc non sicuri”, ha spiegato in un’intervista con questa testata, “ma non viene ancora posta la giusta importanza sul ruolo dell’infrastruttura. Chi controlla le reti controlla tutte le informazioni, anche h24. Sul tema ho fatto la mia prima interrogazione parlamentare nel 2012, perché nel 2011 ci fu un accordo strategico di Huawei nel campo della videofonia con Telecom e Wind, che in quel momento si dividevano il mercato della Pa”.

Il tema, ha sottolineato Esposito, non è solo e tanto la presenza di player cinesi, quanto che “dalle nostre reti transitano tutte le informazioni e i dati riguardati asset critici della nazione, penso a quelli della diplomazia, della difesa o a quelli energetici. Purtroppo da questo punto di vista i governi che si sono succeduti dal 2011 in poi non hanno fatto molto, anzi, nonostante non solo i nostri appelli ma anche i timori più volte sollevati dalla nostra intelligence, che ha strutture dedicate a questo genere di problematiche”.

GLI ALLARMI DELL’INTELLIGENCE

Eppure, ha ricordato ieri Formiche.net, gli 007 italiani hanno messo più volte in guardia il governo negli scorsi anni – nel 2012 e nel 2014 – dall’avanzata della multinazionale hi-tech, che è privata (il 98,6% delle azioni, ricorda Il Sole, è dei dipendenti) ma nondimeno riceve cospicui finanziamenti da alcune delle più grandi banche governative cinesi come Bank of China e Industrial & Commercial Bank of China e ha come fondatore un ex ufficiale dell’esercito di Liberazione popolare cinese, Ren Zhengfei.

Tra coloro che a suo tempo evidenziarono i rischi di un affidamento delle reti di comunicazione nazionale a soggetti stranieri, Pechino inclusa, uno dei più attivi fu il senatore Giuseppe Esposito, già vice presidente del Copasir, che auspicò l’istituzione di una task-force dedicata e che ieri è tornato a parlare della questione in un’intervista su questa testata.

L’appello rimase inascoltato, nonostante le raccomandazioni dell’intelligence. E persino il Movimento Cinque Stelle, che criticò con vigore il governo Renzi per la cessione del 35% di Cdp Reti a State Grid, sembra essersi infatuato del Dragone. I rischi, però, evidenziano gli addetti ai lavori, restano i medesimi di allora.

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