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Il lungo intervento di Mario Draghi, a Francoforte, permette di fare il punto della situazione: tra ipotesi di rallentamento del ciclo economico a livello internazionale e necessità di accelerare l’iter del completamento dell’Unione economica e monetaria. Il tutto condito da un pizzico di ottimismo, che è ingrediente necessario del difficile mestiere del banchiere centrale. Le cui parole hanno, sempre, un effetto diretto sull’andamento dei mercati, che vanno il più possibile tranquillizzati. Ma per evitare effetti controproducenti, è necessario cogliere, con la necessaria tempestività, anche i sintomi più inquietanti al fine di valutarne la portata effettiva.

Le nubi che si intravedono all’orizzonte sono il prodotto di venti particolari: la crisi dell’auto da un lato, le pulsioni protezionistiche che agitano le acque dei rapporti internazionali. Nel primo caso, sostiene il presidente della Bce, siamo di fronte ad un evento particolare, legato soprattutto alle vicende del dieselgate. Lo scandalo delle centraline “taroccate” che alteravano i dati sulle emissioni di sostanze inquinati. Il crollo delle vendite, che ne è seguito, ha una relazione di causa – effetto con quelle vicende poco edificanti, che hanno avuto notevoli ripercussioni soprattutto nei confronti di alcune case automobilistiche tedesche. Le incertezze che ne sono derivate hanno colpito soprattutto i diesel le cui vendite erano state prevalenti nel mercato europeo. Sarà solo un fattore “una tantum” e quindi in grado di essere rapidamente superato, come sostiene Draghi? Forse. Se non vi fossero altri fattori a rendere il clima complessivo più incerto.

Sullo sfondo sono le pulsioni protezionistiche, che stanno frenando il commercio internazionale. All’origine del fenomeno sono anche cause più remote, quali una certa stabilizzazione degli scambi dopo la forte spinta proveniente dalla loro liberalizzazione che ha portato rapidamente alla costituzione di formidabili catene del valore. Ultimate le quali è subentrato un fenomeno di stasi relativa. L’impatto sulle diverse aree, che caratterizzano l’economia mondiale, non è stato uniforme. Gli Stati Uniti hanno rinegoziato gli accordi con il Canada e il Messico, ma rimangono notevoli incertezze. In Europa, invece, l’impatto può essere maggiore. Il relativo rischio deriva dal possibile impatto che la minore domanda estera possa determinare sulle decisioni d’investimento da parte delle imprese. Qualche segnale già si intravede, ma è ancora presto per trarre le necessarie conclusioni. C’è comunque la speranza che quel vuoto possa essere compensato da un maggior tiraggio della domanda interna.

L’analisi non va oltre. Superare quei confini avrebbe, infatti, significato entrare a piedi pari nel complicato mondo degli equilibri politici europei. Nelle ultime previsioni della stessa Commissione europea è descritto un mondo che lascia interdetti. Nel prossimo biennio ad un surplus europeo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, pari in media al 2,5 per cento del Pil, corrisponderà da parte degli Stati Uniti un deficit della stessa proporzione. L’Eurozona farà ancora meglio, con un livello pari al 3,5 per cento in media. Mentre la Cina – in passato il più forte esportatore – mostra un sostanziale pareggio: un valore positivo dello 0,7 per cento del Pil. Nei grandi equilibri mondiali, quindi, l’Europa è l’unica grande area che possa permettersi politiche espansive: rivolte sia ad accrescere le proprie dotazioni infrastrutturali, che a migliorare le condizioni di vita della propria popolazione. Non farlo sarebbe un vero e proprio delitto, destinato ad avere inevitabili conseguenze di carattere politico sia sul piano interno (crescita dei movimenti populisti) che su quello internazionale (inasprimento dei rapporti con i Paesi in deficit, soprattutto gli USA).

Mario Draghi, come si diceva, non accenna a questi temi. Ma essi pesano come pietre. E trascinano con sé il problema del debito. L’analisi più approfondita evidenzia, infatti, come questa sindrome di natura deflazionistica non colpisca in egual modo i diversi Paesi. Basti pensare all’Italia. Draghi insiste sulla necessità di tenere sotto controllo la dinamica del debito pubblico, specie se si considera che i tassi d’interesse tenderanno ad aumentare, seppure in modo tutt’altro che drammatico. Il problema non è “se”, ma “come”. Se siano necessarie ulteriori manovre di contenimento finanziario o se, al contrario, non si debba puntare su reali politiche di sviluppo. Dove l’aggettivo vale forse più del sostantivo. Occorre, in altre parole, non bleffare. Le politiche devono essere orientate direttamente alla crescita e non passare per le strade tortuose del semplice aumento dei consumi, finanziati a carico del bilancio dello Stato. Si legga pure “salario di cittadinanza”.

Altra condizione è fare presto. Finora l’aumento degli spread è stato limitato ed il rischio di contagio non si è ancora manifestato, ma le incertezze rimangono. Ed allora la via maestra è quella di puntare sul “circolo virtuoso tra occupazione reddito da lavoro e consumo, che è stato il motore della crescita per tutta la ripresa”. Speriamo che a Di Maio, così impegnato nella definitiva e titanica lotta contro la povertà, siano almeno fischiate le orecchie. L’analisi di Draghi è rivolta all’Europa – completare l’Unione monetaria e bancaria – ma un occhio preoccupato punta anche sull’Italia, la cui fragilità rispetto a possibili shock interni o internazionali è così evidente. Problemi che presentano profili comuni e reciproche interdipendenze. Lo ha ribadito il ministro Tria, nel suo intervento, di fronte alla platea di imprenditori del Nord est, dicendo che “il problema della crescita è europeo non italiano: va affrontato insieme e non in modo separato e conflittuale”. Ma forse era meglio dire: “non solo italiano”.

Draghi

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