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Negli ultimi due giorni, la lira turca si è svalutata di qualche punto decimale oltre il 20 per cento. La rupia è scesa a quota 70,9 contro il dollaro, per poi risalire leggermente sotto la soglia psicologica di 70. Se si sfondasse questa linea di resistenza, sarebbe difficile prevedere un nuovo punto d’approdo. Ed il contagio rischierebbe di estendersi ad altre valute delle economie emergenti e non solo.

Gli elementi che uniscono realtà pur così diverse sono sostanzialmente due: il forte deficit delle relative bilance dei pagamenti e l’esposizione finanziaria nei confronti dei mercati esteri. In entrambi i casi il forte sviluppo degli ultimi anni (più 7 per cento nel 2017 per la Turchia) é stato fortemente sostenuto da massicci investimenti provenienti dall’estero e dai finanziamenti, in valuta pregiata (dollari ed euro), da parte delle grandi banche internazionali. La svalutazione monetaria determina, di conseguenza, forti perdite per i debitori. Costretti a rimborsare i debiti contratti con “un di più“ direttamente proporzionale all’entità della svalutazione.

Il drammatico peggioramento delle loro situazioni interne è conseguenza di uno shock esogeno, alimentato da due fenomeni di carattere internazionale: l’aumento del prezzo del petrolio, da un lato. La stretta monetaria, avviata negli Stati Uniti, ma destinata a divenire ancora più serrata, a seguito della fine del quantitative easing.

Dal 2016, il prezzo del petrolio è passato da poco più di 30 dollari al barile a quasi 70, a secondo delle sue caratteristiche. I Paesi, fortemente dipendenti dal punto di vista energetico (Turchia ed India sono tra questi), ne hanno ovviamente risentito. Gli aumenti del prezzo del greggio sono stati, per così dire, “pilotati”. I Paesi produttori hanno, infatti, deciso di ridurre la loro produzione di greggio, per ottenere, risorse finanziarie aggiuntive, grazie alle quali finanziare le loro politiche di sviluppo. Il movimento al rialzo è stato visto di buon occhio sia dalla Russia (grande esportatore di gas) sia dagli Stati Uniti. Un prezzo del barile vicino a 70 dollari favorisce infatti la produzione di shale oil, almeno fino alla non augurabile prossima recessione, consentendo ai produttori locali di entrare in competizione con le forniture energetiche più tradizionali.

A sua volta, la politica più restrittiva della Fed ed il conseguente aumento dei tassi d’interesse sta attirando capitali verso la City. Spostando l’asse di convenienza che regola i movimenti finanziari. Si spiega allora perché intervenire in realtà più esposte, sotto il profilo del rischio, divenga meno stimolante. Di conseguenza per i Paesi ad alto debito è sempre più difficile finanziare lo squilibrio delle rispettive bilance commerciali. Si attiva, così, una sorta di corto circuito, che alimenta il deprezzamento delle rispettive monete.

Rispetto a questo schema, l’Italia ha un vantaggio (il surplus della bilancia commerciale) ed un handicap (il forte debito pubblico). Può inoltre contare sulle difese della moneta unica: l’euro. Ma non bisogna esagerare. O indulgere nell’eccessivo ottimismo. Il progressivo aumento degli spread hanno allineato i rendimenti dei titoli italiani ai Treasury americani. Segno evidente che la stessa politica della BCE non riesce ad incidere più di tanto. Ed inciderà sempre meno con la fine del quantitative easing. Ci aspetta quindi un settembre a dir poco problematico. Di cui il governo italiano dovrà tener conto nell’impostare la manovra di fine anno. Nel frattempo sarebbe il caso di allacciare le cinture.

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