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Dopo la sbornia, anche retorica, delle privatizzazioni oggi e per sempre, sembra essere arrivato il momento del clamoroso riflusso. Nelle dolorose settimane seguite alla tragedia di Genova, non si è parlato apertamente di nazionalizzare ‘solo’ la autostrade italiane, ma di rivedere un intero modello economico. Già prima del disastro del 14 agosto, esponenti del governo, perlopiù di area grillina, avevano espresso la volontà di rilanciare Alitalia, sotto forma di “compagnia di bandiera”.

Tradotto, nazionalizzare il disastro odierno. Che il medesimo sia frutto di decenni di sconsiderata gestione pubblica, è naturalmente solo un dettaglio, per chi ha deciso di riscoprire lo Stato-imprenditore. Sia chiarissimo, non mi sfugge l’importanza storica dell’intervento pubblico in economia e i meriti dell’industria di Stato, anche nel miracolo economico italiano. Che questo, però, basti a cancellare decenni di sperperi, mala gestione, arretratezza no. E ancora no.

Parliamo di autostrade: non è che i più che certi guasti di una privatizzazione discutibile debbano necessariamente spingere a nazionalizzare tutto. Un’autostrada a gestione pubblica c’è già da una vita ed è una surreale barzelletta: la mitica A3, che ha fatto in tempo a cambiare nome e diventare A2, senza essere realmente ultimata e messa in condizione di svolgere il compito, per cui fu immaginata e mantenuta gratuita: favorire lo sviluppo economico del Mezziogiorno. Ha favorito, invece, solo intere generazioni di camarille, lasciando sul terreno miliardi.

In Italia, anche solo con i due esempi che abbiamo appena fatto, parlare di nazionalizzazioni dovrebbe incutere un discreto terrore. Invece, l’idea piace a molti, di sicuro a quella fetta di opinione pubblica, che ha ormai in odio l’idea dell’impresa privata e della concorrenza e che vede nel profitto un nemico da additare.

Il motivo di questo ritorno di fiamma per lo Stato-mamma-imprenditore è da ricercare, io credo, proprio nella pancia di quei milioni di italiani, a cui facevamo riferimento poco sopra: una collettiva fuga dal senso di responsabilità. Faccia lo Stato, ci pensi lo Stato, mi trovi un lavoro lo Stato, paghi lo Stato, lavori lo Stato. Una gigantesca tata, che ci sollevi tutti dal peso di dover crescere e affrontare il mondo. Lo Stato, per una moltitudine di italiani, non siamo noi. È un’entità “altra”, con precisi e vastissimi doveri nei nostri confronti e ben pochi diritti. Ultimo, farsi pagare le tasse.

A questa Italia, piace la nazionalizzazione, perché appare rassicurante, il ritorno al calduccio di un tempo. Che possa realisticamente avvicinarci più al Venezuela di oggi che al nostro boom degli anni ’50 e ’60 è visto come un dettaglio da fastidiose cassandre.

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