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Sostanzialmente sconfitto in Europa (riduzione del deficit ipotizzato e tasso di crescita dell’economia più contenuto) Luigi Di Maio si è vendicato a danno di una fascia più che ristretta di pensionati italiani. Si tratta, secondo la Relazione tecnica, di 24.287 persone che, sotto l’albero di Natale, troveranno una decurtazione della loro pensione. Con aliquote marginali crescenti che, sommate al prelievo fiscale ordinario, porteranno il totale complessivo fino all’87,23 (pensionato residente a Roma) del proprio reddito. Per molto meno Gerard Depardieu, di fronte ad un’aliquota del 75 per cento, poi bocciata dalla Corte Costituzionale francese, decise di prendere la cittadinanza russa, per sfuggire alle ingordigie del fisco. Non l’unico per la verità. Una scelta analoga – residenza in Belgio – era stata compiuta da Bernard Arnault, considerato l’uomo più ricco di Francia, dalla famiglia Mullier (catena Auchan) e da numerosi altri attori e cantanti: da Johnny Hallyday a Charles Aznavour e Alain Delon. Logica conseguenza di ingiustificate forzature.

Cosa succederà in Italia è difficile dire. Ma se si possono violare impunemente i dettati costituzionali e le relative sentenze, seppure in modo (speriamo) temporaneo, è molto più difficile disattendere ai Trattati internazionali, la cui eventuale modifica richiede l’accordo dei Paesi che li hanno sottoscritti. A meno di non aprire un contenzioso i cui esiti, visti i precedenti con l’Europa, sono tutt’altro che scontati. Ebbene quei Trattati consentono a tutti i pensionati di scegliere un diverso Paese, dove collocare la propria residenza fiscale. Con il solo obbligo, come in Francia, di trascorrere sei mesi all’anno fuori dal territorio nazionale. Vi sarà anche in Italia il suono suadente di questa sirena? Le premesse ci sono tutte, dato che altrove il carico fiscale complessivo è inesistente. Ed è quindi facile raddoppiare il proprio reddito e, al tempo stesso, godere dei vantaggi di un ambiente confortevole.

Chissà se Di Maio, nel suo furore populista, abbia contemplato quest’eventualità? Il cui effetto sarebbe la facile evaporazione di quei 76,1 milioni (a tanto dovrebbe ammontare il prelievo, secondo la Relazione tecnica) di minori spese previste dal nuovo salasso. Con un ulteriore aggravante: una caduta ancor maggiore dei consumi interni, dovuta alla presenza in Italia solo temporanea di un numero, più o meno grande, di consumatori abbienti. Dettaglio evidentemente trascurato. Ma i numeri, si è visto, non sono nel Dna di questo governo. Pronto a sparare alla luna, per poi ritornare a casa con le pive nel sacco.

Può sembrare un ragionamento cinico. Ma il tema non è l’eticità del contributo di solidarietà. La stessa Corte costituzionale italiana, l’aveva giustificato ponendo paletti (affidamento giuridico, ragionevolezza, eccezionalità della norma) che, a prima vista, sono stati abbondantemente violati. Per questo Alberto Brambilla, uno dei tecnici più esperti di previdenza, di fede leghista, si era inutilmente battuto per un approccio più ragionevole. In un momento di difficoltà per i più deboli è giusto chiedere qualcosa a favore di chi è rimasto indietro. Nulla da eccepire. Invece Di Maio, mentre si consumava la sconfitta in quel di Bruxelles, ha continuamente rincarato la dose. Solo qualche settimana fa, Claudio Duringon, sottosegretario leghista al Lavoro e quindi titolare del dossier, aveva proposto un’aliquota marginale massima del 20 per cento. Che i 5 stelle hanno semplicemente raddoppiato, facendo presentare uno specifico emendamento da parte del loro capo gruppo al Senato. Poi inglobato, seppur con qualche leggera modifica, nel maxi emendamento finale.

Non contenti di ciò, hanno condito il tutto con epiteti inaccettabili (“parassiti”), specie se formulati da persone che non conoscono la fatica del lavoro. Perché grandi teorici della “decrescita felice” e dell’assistenza pelosa. Confondendo il tutto in un grande calderone che non ha né capo né coda. La giustificazione data è la presunta mancata corresponsione dei contributi sociali. Dato assolutamente falso nell’aritmetica previdenziale. Nel caso delle pensioni di vecchiaia – che sono ben diverse da quelle di anzianità – la loro base è data dall’entità dei contributi versati e dalla lunghezza del periodo di contribuzione. Nel vecchio sistema – quello retributivo – i singoli contributi prevedevano una rivalutazione annua che partiva da un massimo del 2 per cento e diminuiva progressivamente con il crescere dell’importo versato, fino a dimezzarsi per i redditi annui superiori a 75 mila euro. Al fine di garantire il rispetto del principio di solidarietà tra i lavoratori.

Calcoli successivi hanno mostrato come lo squilibrio tra quanto versato e quanto ricevuto, sotto forma di pensione, sia massimo per le rendite che oscillano intorno ai 2.000 euro mensili. Mentre per quelle superiori a 6 mila euro si abbia una sostanziale equivalenza. Ne deriva, pertanto, che se anche alle vecchie “pensioni di vecchia” più consistenti, si fossero, oggi, applicati i nuovi criteri del “contributivo” i relativi importi sarebbero equivalenti, se non superiori. In questo secondo caso, infatti, i relativi rendimenti annuali sarebbero uniformi. Si arriva così al paradosso che le vere pensioni “privilegiate” non sarebbero le vecchie pensioni, bensì quelle nuove. Per cui sarebbe conveniente per ciascun pensionato “paperone”, secondo la vulgata grillina, chiedere ed ottenere il “ricalcolo”. Se questo fosse consentito, cosa invece esclusa, dalla norma.

Questo quindi il ginepraio creato dalla voglia di “vendetta” dei 5 stelle. È un altro piccolo smottamento dello “stato di diritto” della nostra tradizione giuridica. Dalle conseguenze imprevedibili. Da un punto di vista finanziario è come se un qualsiasi risparmiatore avesse sottoscritto un buono del tesoro trentennale, per sentirsi dire alla scadenza che il capitale non sarebbe stato rimborsato. Perché il versamento iniziale, a distanza di tempo, non viene riconosciuto. Nell’ordinamento costituzionale italiano tutto ciò fa parte dei parametri su cui è costruito il “principio di affidamento”. Che vale per i cittadini italiani, ma anche per gli investitori esteri. Che guardano, con una certa apprensione, a quanto sta accadendo. Mentre in borsa i titoli finanziari (il dato più dinamico di un sentiment complessivo), complice una congiuntura internazionale che vira verso il peggio, in 15 giorni hanno perso quasi il 10 per cento.

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