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Ritiro di 100 militari dall’Afghanistan e di 50 dalla missione Presidium presso la diga di Mosul in Iraq. Sono le due novità comprese nel decreto missioni che il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, presenterà nei prossimi giorni al Consiglio dei ministri. Il decreto sarà trimestrale, con scadenza dunque al 31 dicembre, mentre alla fine dell’anno sarà preparato un altro decreto, annuale, che decorrerà dal 1° gennaio: sarà quello che fotograferà l’idea del governo Conte sul ruolo delle Forze armate nelle missioni internazionali.

La decisione di un decreto trimestrale è giustificata dalla necessità di completare la copertura finanziaria per il 2018. I numeri anticipati da fonti della Difesa confermano l’indirizzo esposto dal ministro Trenta nell’audizione in Parlamento: la riduzione di determinati contingenti e, in prospettiva, una rimodulazione dell’impegno italiano a favore delle aree di maggiore interesse, di fatto proseguendo la linea del governo Gentiloni. Così la riduzione di soli 100 uomini dall’Afghanistan entro il 31 ottobre si spiega con le elezioni che si terranno il 20 ottobre e in sintonia con gli alleati. L’anno prossimo ci saranno altre riduzioni, probabilmente lievi, confermando la capacità operativa all’interno della missione Resolute support della Nato. Il ritiro di 50 unità da Mosul, invece, arriva dopo altri ritiri fatti nel recente passato perché sono finiti i lavori alla diga della città irachena e dunque si sta concludendo la missione Praesidium che terminerà entro il primo trimestre 2019. Dall’Iraq, inoltre, erano già stati ritirati militari dalla missione Prima Parthica, in particolare una componente aerea di stanza in Kuwait, pur proseguendo l’addestramento delle forze irachene. Nella rimodulazione in atto ci saranno novità per il Niger dopo lo sblocco della missione annunciato dal ministro Trenta nei giorni scorsi.

In attesa del Consiglio dei ministri, però, dalle ore 00.01 di lunedì 1° ottobre circa 13.380 militari sono “illegalmente” impegnati in missioni in Italia e all’estero. Il decreto che il governo Gentiloni varò il 28 dicembre 2017 e che fu convertito a metà gennaio definiva l’impegno nelle missioni internazionali e in quella “Strade sicure” fino al 30 settembre 2018 e non era mai capitato che il governo prima e il Parlamento poi non avessero provveduto a varare il provvedimento senza soluzione di continuità. Il 25 settembre, scrivendo che non si avevano notizie del nuovo decreto missioni, avevamo definito “inevitabile” un Consiglio dei ministri entro la fine del mese: invece, nel rispetto della memoria di Antonio Gramsci, era stato un ottimismo della volontà dimenticando il pessimismo dell’intelligenza.

Fino alla pubblicazione del nuovo decreto sulla Gazzetta ufficiale i comandanti delle missioni impartiscono ordini a proprio rischio e solo il caso ha evitato una tragedia in Somalia, dove il 1° ottobre un’autobomba ha coinvolto un blindato Lince che faceva parte di un convoglio con altri quattro mezzi: pochi danni al mezzo e solo uno choc per li quattro militari a bordo che hanno rassicurato il ministro Trenta e il capo di Stato maggiore della Difesa, Claudio Graziano. Ci sarebbero stati invece alcuni morti e feriti tra i civili somali. In Italia si esclude che l’obiettivo fossero i nostri militari, anche per lo scarso esplosivo utilizzato. Se ci fossero state vittime tra gli italiani di chi sarebbe stata la responsabilità in assenza dell’autorizzazione del Parlamento? Più banalmente, i militari impegnati nelle città nella missione “Strade sicure” hanno anche la qualifica di agente di Pubblica sicurezza potendo identificare le persone e perquisire loro e i loro mezzi: farlo nei giorni privi di “copertura” costituisce un abuso?

Mentre al ministero della Difesa si lavora al decreto, ancora non si conosce la vera posizione della Lega sui temi del settore, dall’ipotesi del “tagliando” cui sottoporre dopo due anni i vertici militari che succederanno agli attuali, riducendo il mandato triennale oggi in vigore, alle scelte industriali. Quest’ultimo è un tema fondamentale e il ministro Trenta sta tentando di convincere i vertici del M5S dell’importanza dei missili Camm-Er che dovrebbero sostituire i vecchi Aspide. Per ora c’è il secco no di Luigi Di Maio, sia in veste di capo politico del M5S che di ministro per lo Sviluppo economico. Eppure quei missili non servono a giocare alla battaglia navale, ma anche, per esempio, a difendere i vertici internazionali o i grandi eventi: non ha torto chi dice che, se continua così, la prossima volta si useranno le fionde senza contare i danni economici e occupazionali ed eventualmente l’Italia sarebbe costretta a chiedere aiuto agli alleati per proteggere eventi in casa propria.

Finora la Lega si è fatta sentire con il proprio sottosegretario alla Difesa, Raffaele Volpi, intervenuto per sollecitare gli investimenti. Matteo Salvini a luglio aveva postato su Facebook una sua foto con la maglietta della Brigata San Marco della Marina militare: “Un onore indossarla”, disse. Oggi, troppo occupato tra ministero dell’Interno e Legge di bilancio, ancora non prende posizione sugli impegni internazionali e sugli investimenti nell’industria militare che hanno ricadute sulla sicurezza, sull’economia e sull’occupazione. Non c’è molto tempo per chiarire se condivide o meno l’opinione dell’altro vicepresidente del Consiglio.

nato

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