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Ho conosciuto Sergio Marchionne all’inizio della sua esperienza in Fiat e si avvertiva una forte personalità caratterizzata da un mix di durezza e di profonda umanità. Aspetti caratteriali da un lato, studi impegnativi e molta “auto-formazione” dall’altro, avevano forgiato in Marchionne le doti necessarie per la guida di un’organizzazione complessa come la Fiat/Fca, in una fase storica in cui c’era bisogno di decisioni rapide, a loro modo “rivoluzionarie” e con forti ricadute sulla vita dei dipendenti. E per un manager c’è un solo modo per confermare la validità della propria leadership: raggiungere gli obiettivi prefissati per dimostrare di aver ragione laddove nessuno era disposto a mettersi in gioco; far vedere dai risultati che quello da tutti giudicato impossibile era, invece, fattibile.

In questo senso in Marchionne erano incastonati i valori identificativi della stessa cultura manageriale: la visione, il coraggio, l’attitudine a comprendere le potenzialità dei collaboratori, la responsabilità. E aver compreso fino in fondo la “solitudine” del dover decidere. Lo disse proprio lui nei pochi discorsi o testi pubblici: “La leadership non è anarchia. In una grande azienda chi comanda è solo. La collective guilt, la responsabilità condivisa, non esiste. Io mi sento molte volte solo”.

Ma non si tratta soltanto di capacità manageriali, pur eccellenti. La lezione di Marchionne non riguarda tanto le sue innegabili competenze professionali, quanto averle sapute inserire in un grande progetto di medio-lungo periodo, con una capacità di visione che sfiora la temerarietà e che non appartiene certo a chi si limita ai business plan. Così è stato nel caso del contestatissimo “matrimonio” con la Chrysler, gestito da Marchionne con polso fermo e nessun tentennamento, certo che l’obiettivo non era unire due debolezze, ma creare un nuovo gruppo automobilistico globale, con marchi di eccellenza. O come è stato per Pomigliano, dove ha visto possibilità ed occasioni laddove altri vedevano capannoni vuoti e macchinari fermi.

È questa la lezione di Marchionne che spero non vada perduta e che impone di riprendere il lavoro interrotto e di portarlo a termine senza revisioni al ribasso o preferendo soluzioni meno ambiziose. E questo non vale solo per il futuro della Fca, che ci auguriamo solido e duraturo, ma per proseguire, idealmente, nella strada aperta da quello che potremmo chiamare il “modello-Marchionne”. Che si traduce nello sfidare le convenzioni e nel percorrere strade nuove. Lo si è visto nei rapporti con i sindacati, ad esempio, giocati a tutto campo, senza trucchi, senza cercare sponde compiacenti o finalità diverse da quelle della salvezza dell’azienda e del suo rilancio produttivo. Lo si è visto anche nello “strappo” con Confindustria che ora viene letto come un gesto di lungimiranza più che come una “banale” prova di forza. Oppure, infine, nel dialogo con la politica, mantenuto nei confini istituzionali, senza ammiccamenti, né complicità.

Ma le parole migliori e forse più significative per dare una sintesi del “messaggio” di Marchionne uomo e manager, le ha scritte lui stesso: “Esiste un mondo in cui le persone non lasciano che le cose accadano. Le fanno accadere. Non dimenticano i propri sogni nel cassetto, li tengono stretti in pugno. Si gettano nella mischia, assaporano il rischio, lasciano la propria impronta. È un mondo in cui ogni nuovo giorno e ogni nuova sfida regalano l’opportunità di creare un futuro migliore. Chi abita in quel luogo, non vive mai lo stesso giorno due volte, perché sa che è sempre possibile migliorare qualcosa”.

Marchionne, il manager con i sogni stretti in pugno, non chiusi nel cassetto

Ho conosciuto Sergio Marchionne all’inizio della sua esperienza in Fiat e si avvertiva una forte personalità caratterizzata da un mix di durezza e di profonda umanità. Aspetti caratteriali da un lato, studi impegnativi e molta "auto-formazione" dall’altro, avevano forgiato in Marchionne le doti necessarie per la guida di un’organizzazione complessa come la Fiat/Fca, in una fase storica in cui c’era…

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