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I dieci anni della peggiore crisi finanziaria della storia globale hanno dimostrato, più di ogni altra considerazione teorica, la validità e la necessità, nel nostro sistema economico, di un sistema creditizio che tenga conto di una pluralità di forme proprietarie e, fra queste, della cooperazione bancaria della quale il Credito popolare è, da sempre, parte integrante.

Se leggiamo, infatti, i dati relativi all’ammontare dello stock degli impieghi erogati dal Credito popolare in Italia negli ultimi dieci anni, ci accorgiamo che questo è cresciuto di oltre 30 miliardi di euro. Il flusso di nuovi finanziamenti alle sole piccole e medie imprese, dal 2008 a oggi, ha superato la cifra complessiva di 320 miliardi di euro. Una crescita per nulla scontata perché ottenuta in un fase di recessione e malgrado le richieste della Banca Centrale Europea, a tutto il sistema bancario italiano, di adeguarsi a vincoli più stringenti di patrimonializzazione. Una richiesta, anche in questo caso, che ha visto il Credito popolare in prima linea, con un aumento del CET1 dal 7% del 2008 ad oltre il 13% già dal 2015 – per il sistema nel suo complesso tale soglia è stata superata solo alla fine dello scorso anno. A questi dati va aggiunta un’ulteriore considerazione. Alla luce di un’economia reale tuttora debole e asfittica cosa sarebbe stato dei territori e della coesione sociale del nostro Paese senza il contribuito così rilevante del credito popolare?

Oggi, dunque, alla luce di ciò che è accaduto in questi dieci anni, è bene iniziare a fare qualche bilancio. Si può affermare, senza temere di essere smentiti, che quello che ne è uscito fortemente indebolito è il modello di business bancario e finanziario che la fase precedente alla crisi, quella della globalizzazione vincente, aveva imposto come modello ottimale, più efficiente ed efficace, a cui bisognava uniformarsi e che oggi è, invece, evidentemente sulla via del declino. Un modello che, a partire dagli anni ’80, aveva lavorato affinché le banche di tutto il mondo finanziassero le proprie attività attraverso prestiti di altre istituzioni finanziarie – altre banche e fondi del mercato monetario – perché spinte dalla ricerca di sempre maggiori profitti e in tempi sempre più ristretti. Non è un caso che la prima grande banca a fallire, nel 2007, sia statala Northern Rock, istituto bancario specializzato in credito immobiliare che non aveva, però, esposizione ai mutui subprime americani, ma il cui modello di finanziamento si basava in modo schiacciante sul prestito da tutto il mondo.

Il 2008 ha segnato l’inizio della grande crisi globale, ma anche l’inizio di un processo di ripensamento del modello globale. La liquidazione del legame straordinariamente stretto e altrettanto pericoloso tra economia e finanza è, oggi, in corso. La riscoperta e la valorizzazione del tradizionale retail bancario, che vede al centro dell’attività creditizia l’interesse di famiglie, consumatori, imprese e territori, non sono più soltanto auspicati ma rappresentano una scelta per la ripresa dell’economia reale e, quindi, per l’uscita dalla crisi. Le banche del Credito popolare che non hanno mai abbandonato questo modello di fare banca, e per questo hanno potuto attraversare i duri anni della crisi, stanno dando un contributo prezioso alla ridefinizione strategica del sistema economico. Un modello che certamente sa innovarsi tanto da cogliere nella sfida del Fintech non un pericolo ma, al contrario, un’ulteriore opportunità evolutiva del proprio modello di business. Un ponte tra vecchio e nuovo nel quale l’approccio relazionale è in grado di garantire le necessità di una clientela sempre più fluida ed esigente grazie a quel rapporto fiduciario basato sulla conoscenza reciproca e su rapporti umani che le nuove tecnologie, con le loro piattaforme, per quanto evolute siano, non possono, ancora – e forse mai potranno – sostituire.

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