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Forse la notizia non è abbastanza cattiva da catturare l’attenzione degli astanti, oramai drogati da linguaggi e concetti bettolari, ma temo solo non la si sia capita. Fitch s’è mossa con mano leggerissima, rivedendo la crescita del nostro prodotto interno lordo all’1% nel 2018 (era 1,2) e all’1,1 nel 2019 (era 1,2). Roba quasi giuliva, dopo avere visto il segno meno nel terzo trimestre e aspettandone uno analogo per il quarto. Solo che l’orecchio sordo non ha sentito il rintocco a morte.

Quella limatura è stata fatta, immagino, guardando più a Francoforte che a Roma, più alla Banca centrale europea che al balletto governativo sui conti pubblici. Come a dire: non c’è troppo da preoccuparsi, finché la guardiania centrale assicura che il barcollare alticcio non si dirige verso il precipizio. Ma anche quel solo ritocchino dovrebbe ricordare una cosa: esistono le agenzie di rating e il giudizio sull’affidabilità dei nostri conti è ancora sospeso. Se quei numeri si rivelassero ottimistici, se la procedura d’infrazione non fosse fermata, prenderebbe corpo non solo la correzione delle previsioni, volte al negativo, ma direttamente un declassamento, un downgrading. A quel punto procedura d’infrazione e declassamento si sommerebbero, alimentandosi vicendevolmente e aprendo uno scenario decisamente pulp.

È questa la ragione per cui quella procedura non la vuole nessuno che ragioni. Non la vuole la Commissione europea, che sta mediando e tenendo a bada le reazioni più vivaci, di chi ha sentito i governanti italiani offendere l’esistenza stessa dei bilanci (non si possono sentire affermazioni del tipo: prima vedo quanto mi serve spendere e poi vi dico che deficit farò, copyright Salvini). Non la vuole il governo italiano, che al di là delle gradassate ha capito che la distanza che ci divide dalle elezioni europee è breve, ma non abbastanza da potere stare in equilibrio sulle scivolose castronerie prodotte quotidianamente. Non la vogliono gli altri europei, perché è vero che, a questo giro, non è partito l’effetto contagio, che l’Italia può essere isolata nel cercarsi il suo destino, ma è escluso che una rottura di quel tipo non produca conseguenze negative per l’intero mercato interno. Non la vuole nessuno, ma non si sa come evitarla.

I governanti italiani devono scegliere: salvare la faccia o la testa. Con l’aggiunta che la faccia è la loro, mentre la testa è quella collettiva. Questo è il punto in cui ci troviamo. Non dubito che vi siano virtuosi dell’affabulazione, capaci di sostenere tutto e il suo contrario, ma sarà bene comincino a esercitarsi nel rinculo, perché il procedere a testa alta e senza deflettere è eroico e ammirevole, ma a patto d’avere terreno sotto i piedi e spazio innanzi.

Dopo Fitch il governo scelga cosa salvare: o la faccia o la testa

Forse la notizia non è abbastanza cattiva da catturare l’attenzione degli astanti, oramai drogati da linguaggi e concetti bettolari, ma temo solo non la si sia capita. Fitch s’è mossa con mano leggerissima, rivedendo la crescita del nostro prodotto interno lordo all’1% nel 2018 (era 1,2) e all’1,1 nel 2019 (era 1,2). Roba quasi giuliva, dopo avere visto il segno…

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